Falli-Monti è un gioco di parole troppo facile e scontato per riuscire a nascondere la ricerca di una linea politica. Roberto Maroni lo sa, ma dal palco di Genova non riesce ad evitare le contraddizioni della ricerca di un difficile equilibrio fra la necessità di un recupero di identità e il rischio di finire isolati e marginali nel prossimo futuro, dopo le elezioni del prossimo anno. La Lega cerca di ripartire dallo stesso luogo – i Magazzini del Cotone – in cui 18 anni fa cominciò la parabola discendente del primo governo Berlusconi. E paradossalmente lo fa guardando ancora una volta a Berlusconi e al suo partito.
Allora però era tutto più chiaro e più semplice: al tentativo di Berlusconi di scalare la Lega come fosse una società per azioni, Bossi rispose disarcionando il Cavaliere. Oggi bisogna recuperare terreno dopo che l’esperienza di governo si è esaurita, schiacciata sotto il peso della crisi economica e degli scandali, Belsito (un genovese) compreso. Attaccare il governo dei tecnici del varesino Mario Monti è facile, e ricompatta il partito: troppe tasse, troppi soldi alle banche, aziende che chiudono e disoccupazione alle stelle. Anche promuovere una mozione di sfiducia al ministro dell’economia Grilli non è poi troppo complicato.
L’orizzonte che Maroni delinea per la sua Lega 2.0 è l’egemonia sulle regioni settentrionali. Un orizzonte ambizioso al limite della temerarietà, Se riuscisse nell’impresa di succedere a Roberto Formigoni per almeno due anni, dal 2013 al 2015, potrebbe giocare di sponda con Cota in Piemonte e Zaia in Veneto, per premere con forza su Roma. L’ex ministro dell’Interno chiama questo scenario “macro regione del Nord”, ma la strada per arrivarci è stretta e tortuosa. In primo luogo, pensare di vincere da soli in Lombardia, pur con l’appoggio di una o più liste civiche, è velleitario. I sondaggi sono inequivocabili: il centrodestra ha chanches di vittoria solo se si presenta unito. Altrimenti Ambrosoli avrà la strada spianata.
Ecco perché la Lega non si può permettere di chiudere la porta al Pdl, anche se Maroni si lamenta di non sapere con chi parlare, visto il caos che regna sotto il cielo del partito azzurro. Per Berlusconi vedrebbe bene un futuro sulla panchina del Milan (passione comune). Ad Alfano -interlocutore preferito – propone di riaprire la trattativa partendo dell’election day il 10 febbraio, risultato da raggiungere staccando la spina a Monti prima di Natale, un minuto dopo l’approvazione della legge di stabilità. La Lega ci guadagnerebbe la Lombardia, il Pdl la probabile ingovernabilità del Senato se, votando col Porcellum, il centrodestra in caduta libera riuscisse a prevalere almeno in Lombardia, Veneto e Friuli.
C’è però un elemento di contraddizione nel discorso del segretario leghista a Genova, e sta nel vistoso cedimento all’anima più dura del Carroccio, quella secessionista, ancora forte e rumorosa in quella Lega 2.0 che vede con diffidenza l’antico armamentario di elmi con le corna e cianfrusaglie celtiche assortite. Maroni da la sua benedizione al referendum per l’auto determinazione di cui si sta discutendo nel consiglio regionale veneto, anzi invita Zaia ad attendere febbraio, quando auspica che la Lombardia, sotto la sua guida possa accodarsi.
Può trattarsi di una semplice arma di pressione nei confronti di chiunque da aprile siederà a Palazzo Chigi. Di sicuro però queste parole metteranno in imbarazzo il Pdl e renderanno più difficile il dialogo, tanto a livello nazionale, quanto a livello lombardo. Per Bobo sarà un passaggio strettissimo che, in caso di errori, condannerebbe la sua Lega all’irrilevanza politica. È vero che la sua segreteria ritiene la presenza a Roma secondaria rispetto a quella sul territorio. Ma la realtà e’ ben diversa. È finire nell’angolo a livello nazionale vorrebbe dire condannarsi a una nuova e pericolosa traversata del deserto, come accadde dopo la caduta del primo governo Berlusconi, con la svolta secessionista e tutti i rischi ad essa connessi. Persino in caso di vittoria in Lombardia, però, Maroni non potrebbe vivere sonni tranquilli: si porrebbe il problema della guida del partito. E tra Zaia, Tosi e Giorgetti, i nomi attualmente papabili, la scelta per il Carroccio non sarebbe affatto indolore.