Antonio Ingroia, magistrato ormai famoso della Procura di Palermo, scende in campo con la sua lista “Rivoluzione civile”. E subito non risparmia critiche a nessuno. Ma ieri, nella presentazione della sua lista in un teatro di Roma, Ingroia concentra i suoi attacchi sul leader del Pd, Pier Luigi Bersani, e sul Procuratore nazionale Antimafia, Piero Grasso. Dice Ingroia: «E’ stato un errore da parte di Bersani candidare Piero Grasso. Nel maggio del 2012 Grasso voleva dare un premio a Berlusconi per meriti nella lotta alla mafia. E’ diventato Procuratore Antimafia grazie a una legge approvata sempre da Berlusconi che ha escluso la candidatura di Giancarlo Caselli». In sintesi, Antonio Ingroia, senza mezzi termini, accusa il segretario del Pd di aver tradito la tradizione di Pio La Torre e di Enrico Berlinguer. E a questo punto, come d’incanto, sarà la sua “Rivoluzione civile” a “rappresentare la coerenza con la storia della lotta alla mafia”.



Di fronte a giudizi tanto perentori, quasi a sentenze, proviamo ad ascoltare un altro uomo che la lotta alla mafia l’ha fatta davvero e per tanti anni. Pietro Barcellona è filosofo del diritto, docente all’Università di Catania. Ma il suo lavoro teorico è sempre stato accompagnato da un impegno civile e politico di grande rilievo. Pietro Barcellona è stato un dirigente di spicco del Partito comunista italiano in Sicilia, proprio al fianco di Pio La Torre. E’ diventato parlamentare del Pci nel 1979 e prima era stato membro laico del Consiglio superiore della Magistratura. A fianco di Pio La Torre, Pietro Barcellona andava a fare i comizi nei quartieri della Sicilia profonda, anche in quelli ad alta “densità mafiosa”. In un periodo della sua vita è stato pure aggredito per strada da esponenti del Msi che erano diventati molti forti nella sua Catania.



Professore, come giudica queste dichiarazioni di Antonio Ingroia  su Bersani e su Piero Grasso?

Guardi, ho letto e ascoltato  le dichiarazioni di Antonio Ingroia e mi sembrano  ingiudicabili, inspiegabili. Fino a qualche tempo fa Ingroia era anche un collaboratore de L’Unità, cioè il giornale del Pd, e poteva scrivere tutto quello che voleva su come condurre la lotta alla mafia, sul ruolo che avevano i magistrati. E devo aggiungere che non mi pare che il Pd  si sia messo contro la Procura di Palermo.

Ingroia parla di un “tradimento” della tradizione di Pio La Torre e di Enrico Berlinguer.



Io non so dove lo possa vedere; questa accusa a Piero Grasso, inoltre, mi sembra al limite del ridicolo. Non condivido, in ogni caso, questo atteggiamento “missionario” da “salvatori della Patria”, tutto questo presenzialismo dei magistrati. I magistrati devono indagare su casi singoli, non generalizzare e poi stilare grandi programmi per lanciare battaglie simboliche. C’è anche una tendenza a “sparare nel mucchio” che può diventare antiproducente al fine di una lotta seria contro tutta la criminalità organizzata. Non si può mettere sotto processo l’intero Paese.

Vede un aspetto positivo in queste candidature di magistrati?

C’è un aspetto positivo che si può cogliere. Quello di aver sottolineato la necessità di un rilancio nella lotta alla mafia. Ma su questo punto deve esserci un complessivo impegno nazionale, dello Stato. Quando io vedo i livelli di disoccupazione, quando conto il fallimento di migliaia di imprese, capisco che questo malessere sociale diventa un terreno fertile per la mafia e tutta la criminalità organizzata. E quindi non c’è solo l’impegno della magistratura, ma di tutta la classe dirigente di questo Paese. Alla fine bisognerà pur comprendere che se non si salva il Sud di questo Paese, non si salva neppure l’Italia.

L’impegno dunque deve essere a tutto campo, anche politico, economico e sociale. 

Lei pensi solo a come è stata abbandonata, dimenticata, trascurata l’agricoltura mediterranea. C’erano prodotti di altissima qualità. Pensi ancora alla povertà di iniziativa politica che si è sviluppata in questi anni verso i Paesi del Mediterraneo, quelli che oggi chiamiamo i paesi della “primavera araba”. Tutto questo richiede un grande piano nazionale, un grande impegno, una linea politica che potrebbero tracciare solo dei grandi partiti, se ci fossero o se si rinnovassero. E tutto questo potrebbe diventare, anche con l’azione della magistratura, un grande piano contro la mafia e la criminalità organizzata.

Forse il vecchio soggetto politico, il partito, è superato?

 

Questo può anche essere vero. Ci dovrebbero essere cambiamenti, probabilmente nuovi modelli, ma la democrazia c’è quando ci si parla e ci si guarda in faccia. E oggi non si trova più nessuno dipsosto a farlo. Anche i giornalisti si limitano a messaggi, a schematizzazioni, magari senza neppure metter piede in Sicilia. Io non ho nulla contro le nuove tecnologie di comunicazione, ma la sola democrazia digitale non mi pare democrazia. Bisogna calarsi nella realtà concreta. Quando andavo a fare i comizi in certi quartieri delle città siciliane cercavo di parlare in dialetto, perché altrimenti vedevo le persone diffidenti.

Non le è apparso strano che a Palermo si intercettasse anche il procuratore capo? E che i colleghi che lavoravano con lui lo sapessero e non ne parlassero?

Effettivamente fa un certo effetto. Ma ormai il diritto alla riservatezza non esiste più, siamo praticamente tutti “nudi”, con una cultura del sospetto che dilaga. Su questo punto aveva ragione Leonardo Sciascia. A forza di sospetti generalizzati si è finiti con l’avvelenare la società italiana.

(Gianluigi Da Rold)