Mai come nel caso della legge elettorale la domanda da cui partire è sempre quella più antica: cui prodest? A chi giova quel fallimento della riforma che è ormai sotto gli occhi di tutti? Due interessi convergenti emergono con chiarezza dalla cortina fumogena fatta di premi e premietti, ascensori di Calderoli e bozze di Quagliariello, niet della Finocchiaro e strepiti di Casini pro preferenze. Se il sistema elettorale rimane il tanto vituperato “Porcellum” a potersi dire soddisfatti (in privato) saranno Pier Luigi Bersani e Silvio Berlusconi.
Opposte le ragioni di sollievo, che li uniscono sottobanco in una inconfessabile manovra a tenaglia contro il volere del Quirinale di dar seguito al richiamo della Corte Costituzionale, che ha censurato il sistema voluto dall’ex ministro leghista nel 2005 soprattutto per l’assenza di una soglia minima oltre la quale far scattare il premio di maggioranza.
Se da un lato Bersani non ha alcun interesse a stabilire un’asticella che la sua coalizione rischia di non aver la forza di superare nonostante lo slancio delle primarie, dall’altra Berlusconi non fa troppo mistero del desiderio di tenersi le mani libere sfruttando l’altro punto discutibile del “porcellum”, cioè le liste bloccate, per selezionare una pattuglia di parlamentari ridotta, ma composta assolutamente di fedelissimi per combattere l’ultima battaglia.
Tutto il resto, diciamocelo, è diventato stucchevole recita per decidere chi dovrà scottarsi di più rimanendo con il cerino in mano della rottura. Lo certifica anche il farsi da parte del mediatore principe, quel Calderoli padre della legge in vigore. Quel che, invece, non è facile capire è come questo fallimento sarà sanzionato, se basterà il rinvio sine die dell’approdo in aula, oppure se si tenterà di portare il testo davanti al plenum di Palazzo Madama, prolungandone l’agonia sino a che qualcuno, magari Berlusconi, non metta in pratica il suo proposito di accorciare i tempi per andare a votare a febbraio, staccando la spina al governo prima di Natale, un minuto dopo l’approvazione della legge di stabilità. L’election day il 10 febbraio, politiche insieme a tutte e tre le elezioni regionali (Lombardia, Lazio e Molise) sembra infatti un alibi perfetto per far saltare la riforma senza far troppo brutta figura. In più consentirà al Cavaliere di avere in pugno il partito che gli stava sfuggendo e convincere anche i più riluttanti dell’opportunità del suo ritorno in campo. E chi non ci sta, si accomodi alla porta.
C’è un solo fattore che potrebbe sovvertire questo processo, che trova in Casini un troppo flebile oppositore, non in ragione delle preferenze – obiettivo sostanzialmente di facciata – ma in nome della soglia più alta possibile per far scattare il premio di maggioranza alla coalizione vincente. Si tratta del fattore “N”, cioè un intervento del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, apparso sin qui riluttante a percorrere una strada diversa da una forte moral suasion sull’opportunità di riformare la legge elettorale.
Se il Capo dello Stato mettere da parte ogni esitazione e rivolgesse un messaggio alle Camere, forse la situazione si sbloccherebbe. Ma se Napolitano sin qui non l’ha fatto, sembra probabile supporre che abbia verificato che non esiste sufficiente consenso a questo passo, che apparirebbe insieme una forzatura ed una ingerenza in una materia nella quale il Parlamento è sovrano. Il filo diretto con i partiti il Quirinale lo ha sempre tenuto,e probabilmente sta prevalendo l’idea di evitare uno scontro difficile da spiegare all’opinione pubblica.
E’ questa l’ultima variabile del complesso mosaico della questione. Non è chiaro come potrà reagire l’elettorale al fallimento della riforma della regole per il voto. Potrebbe prevalere l’indifferenza, oppure si potrebbe alimentare il fuoco dell’antipolitica. In quel caso di vincitori, accanto a Bersani ed a Berlusconi potrebbe essercene a sorpresa anche un altro, Beppe Grillo, che potrebbe cavalcare l’ennesima dimostrazione di una classe politica tutta ripiegata su se stessa, a garantirsi non solo i posti, ma anche la scelta di chi deve essere chiamato ad occuparli.