La pubblicazione della sentenza vera e propria è attesa a breve, mentre le sue motivazioni potrebbero arrivare persino a gennaio. Poche righe di comunicato della Corte costituzionale sono, tuttavia, sufficienti per capire perché i giudici supremi hanno deciso di dare ragione a Napolitano, dopo che questi aveva sollevato un conflitto d’attribuzione per esser stato intercettato dalla Procura di Palermo nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. I pm stavano, in realtà, intercettando il senatore Mancino che, a sua volta, stava conversando telefonicamente con il presidente della Repubblica. «Non spettava» alla Procura di Palermo, dice la Consulta, «di valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica» e «neppure spettava di omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzione ai sensi dell’articolo 271, 3° comma, c.p.p. e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti». Tomaso Francesco Giupponi, professore di Diritto costituzionale presso l’università di Bologna, ci spiega quali sono, a suo avviso, le motivazioni della sentenza.
Come valuta la decisione della Corte?
Credo che, al di là delle motivazioni, rappresenti la giusta ricognizione di un principio costituzionale di tutela della persona del capo dello Stato, in virtù delle delicatissime funzioni che esercita. La corte Costituzionale, infatti, è stata chiamata a giudicare non tanto la legittimità o meno di una norma di legge, quanto se l’esercizio della funzione giurisdizionale, cioè l’attività di un potere dello Stato (la magistratura) fosse o meno rispettosa nei fatti e nelle tecniche adottate delle attribuzioni di un altro potere dello Stato (il presidente).
Nel merito, cosa ha stabilito?
La Corte è stata chiamata a decidere se il comportamento e le attività di indagine degli uffici della Procura di Palermo abbiano leso le prerogative del capo dello Stato. E ha deciso di accogliere il suo ricorso, ove sosteneva di non poter essere sottoposto ad attività di intercettazione delle sue telefonate private perché questo, appunto, avrebbe leso la sua funzione delicatissima.
In base a quali ragioni?
Possiamo dedurre dal comunicato che la Corte abbia tenuto, anzitutto, conto del fatto che il capo dello Stato è un organo particolarissimo; è rappresentante dell’unità nazionale e, benché non sia totalmente e autonomamente titolare di nessuna funzione dello Stato (legislativa, esecutiva e giudiziaria) vi partecipa in funzione di garanzia. E’ un organo monocratico che a tutela della sua imparzialità e indipendenza in questa sua delicatissima funzione è dotato di una specifica sfera di immunità, prevista dall’articolo 90, secondo cui non può essere considerato responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, salvo il caso di alto tradimento e attentato alla Costituzione. In base a questa premessa, che l’atto fosse un esercizio delle proprio funzioni è stato certamente rilevante, ma credo solo fino a un certo punto.
Cosa ha inciso di più?
L’articolo 90 ci dice quando il capo dello Stato può essere sottoposto a responsabilità e quando non può esserlo. Non dice nulla, tuttavia, rispetto alla possibilità di incidere sulle sue libertà fondamentali. Mi spiego con un’analogia: un conto è l’insindacabilità di un parlamentare tale per cui, nell’esercizio delle sue funzioni, non può essere chiamato rispondere di alcuna responsabilità. Si tratta di un’immunità strettamente funzionale che tutela l’esercizio tipico di funzioni parlamentari. Contestualmente, esiste un’inviolabilità della persona del parlamentare: per arrestarlo, perquisirne l’abitazione o intercettarlo è necessaria l’autorizzazione della Camera cui appartiene. In questo secondo caso, si prescinde dall’esercizio delle funzioni parlamentari.
Torniamo a Napolitano
Un conto è stabilire quando il capo dello Stato è responsabile di ciò che compie nell’esercizio delle sue funzioni; un altro, decidere se si possa intercettarlo, perquisirlo o arrestarlo limitandolo, quindi, nelle sue libertà fondamentali. Il che prescinde dalla distinzione tra atti funzionali o extrafunzionali. Si tratta di una tutela della sua persona nel momento in cui, temporaneamente, riveste quella carica.
Cosa prevede la legge?
In tal senso, una norma esplicita e puntuale non esiste. Un argomento che potrebbe essere risultato decisivo consiste nel fatto che i provvedimenti della limitazione della libertà personale, di intercettazione o di perquisizione del capo dello Stato in carica possono essere presi solo nel caso in cui sia messo in stato d’accusa per i suddetti gravissimi reati, e solo dopo che la Corte costituzionale ne abbia determinato la sospensione dalla Carica. Se neanche in quei casi gravissimi tali provvedimenti si possono prendere senza la sospensione, figuriamoci per quelli meno gravi.