Quando questo pezzo andrà in Rete Angelino Alfano si sarà messo in macchina con un mandato ben preciso, diretto al Colle con la delegazione del Pdl. Ma, siamo pronti a scommettere, scoprirà nel giro di pochi minuti che gli è stata messa in tasca una pistola scarica.

Più spuntata di tutte è l’arma dell’election day, il voto anticipato insieme alle Regionali del Lazio. Sarebbe “folle” non concederlo, ha detto ieri il segretario del Pdl. Senza argomentare con parole altrettanto forti, il nonnino sul Colle sarà però costretto a spiegargli che prima si deve approvare la legge di stabilità, entro il 31 dicembre, per cui ogni altro discorso slitterà a inizio gennaio e per indire le elezioni servirà, minimo minimo, un mese e mezzo. Cosicché, la data già fissata per il voto laziale al 3 febbraio renderà a quel punto impraticabile un accorpamento di date. Alfano quindi verrà messo oggi di fronte a due alternative: o far precipitare le cose subito staccando la spina sulla legge di stabilità già alla prima votazione, o rinunciare al tanto reclamato election day. Salvo non si intenda far mancare, obietterà Napolitano,  in un momento come questo per giunta, i voti alla legge di Bilancio dello Stato. Con la conseguenza di dover procedere alla gestione “per dodicesimi”, sulla scorta cioè del precedente bilancio, assumendosene la responsabilità: con questi ragionamenti il nonnino incalzerà la delegazione del Pdl, seduta di fronte a lui. Perché, per strano che possa sembrare, per il Quirinale ieri, al Senato e alla Camera, non è accaduto niente di particolarmente grave. Se il Pdl avesse voluto far cadere il governo avrebbe potuto votare contro. In questo modo invece si è limitato ad assecondare la propaganda anti-Monti dettata dal capo a suggello del suo ritorno in campo, senza aver il coraggio, o la forza, di pagare lo scotto di una crisi. A pagare siamo comunque tutti noi, sia chiaro, perché non si pensi che lo spread è una questione dei banchieri: lo paghiamo in realtà tutti noi sotto forma di maggiori interessi. E parliamo di miliardi.



Una mossa suicida, comunque, quella del Cavaliere, ma ancor più suicida è l’inerzia di Alfano, che è andato dietro all’improbabile annuncio delle primarie, che Berlusconi stesso ipotizzò per il 16 dicembre, salvò poi cambiare idea lasciando il segretario col cerino in mano ampiamente dimezzato nella sua autorevolezza. D’altronde il Cav, padrone di casa, aveva prima provveduto a chiudergli i rubinetti e a non pagargli le bollette, quindi una volta costretto a più miti consigli (perché senza fondi le primarie non si fanno) lo ha completamente riallineato alla sua strategia.



Una strategia priva di respiro, come tutti capiscono, ma – persa per persa – meglio guadagnare qualche punto con il populismo anti-Imu, avrà pensato Berlusconi, tenendo intanto unita la truppa con il controllo che il Porcellum consente delle candidature. Un fenomeno, questo, che ieri ha originato la corsa, un po’ triste, all’adesione della scelta del ritorno in campo. Una situazione, però, che mette in agitazione l’ala moderata del Pdl, o meglio la parte più responsabile, visto che ad esempio Alfredo Mantovano, che ha votato la fiducia ieri in dissenso con il gruppo, tutto può essere considerato, tranne che centrista o montiano, ma si rende conto – non solo lui, ma lui è fra i pochi ad averne già tratto le conseguenze – che non si possono piegare gli interessi del Paese a quelli di una sola persona. Perché a nessuno deve sfuggire quale sia stato il momento in cui, improvvisamente, Berlusconi ha iniziato a staccare la spina a Monti, costringendo alla fine tutti nel Pdl alla stessa scelta, peraltro neanche portata a termine. Il mutamento è avvenuto, non a caso, all’indomani della sentenza di condanna per i diritti Mediaset, ricorderete, con il clamoroso discorso di villa Gernetto. Il che autorizza a pensare che il via libera al governo Monti fosse  stato dato, in realtà, in cambio della promessa di un allentamento della morsa giudiziaria. Inutile dire che chi può aver fatto balenare questa possibilità a Berlusconi prometteva qualcosa che non era nelle sue disponibilità, e disarmante è il fatto che lui possa avervi creduto, salvo a far saltare il tavolo quando la prima condanna è arrivata lo stesso.



È evidente che un fenomeno del genere e il ritorno che comporta all’alleanza con la Lega, nulla hanno a che vedere con il Partito Popolare Europeo. Un partito del genere, se nascerà, lo farà comunque al di fuori di un quadro credibile di riferimenti internazionali, a meno che non si consideri quello di Putin: non gli Usa, non la Francia, non la Germania, non la Bce, non le istituzioni europee.

In tanti si rendono conto dell’impraticabilità della prospettiva, ma ora il tempo stringe. Milioni di italiani nell’area alternativa alla sinistra sono ormai privi di un riferimento credibile e, o decidono di non votare, o iniziano a pensare che Bersani in fondo non è così brutto e cattivo come lo si vuol dipingere. I tanti tentativi e le tante esitazioni che si susseguono sul fronte moderato (l’Udc a Chianciano che lanciò la lista per l’Italia, sin qui non pervenuta; il Forum cattolico di Todi, che stenta a darsi una sua strutturazione univoca e credibile; “Verso la Terza Repubblica”, di Montezemolo e soci; “Fermare il declino” di Oscar Giannino) si elidono o si intersecano a vicenda. Ma paradossalmente, salvo Berlusconi non cambi idea di nuovo (chi può dirlo?) se porterà davvero avanti questo suo partito sull’asse Briatore-Santanché (sarà divertente poter assistere, se ammessi, alla selezione del casting) finirà per liberare un sacco di energie. Ieri ha iniziato il ministro Passera a dire la sua (aveva torto a parlare di ritorno al passato sulla scelta di Berlusconi che contraddice sé stesso?), e alla fine anche il veto di Napolitano a una lista per Monti potrebbe essere rimosso. Come potrebbe infatti, il Quirinale, negare legittimazione a un partito che nascesse per proseguire sulla linea di questo governo, completandone la parte sulla crescita, a fronte di un partito (il Pdl) che si tira fuori e un altro (il Pd) che prende più cautamente le distanze?

Ora, però, sondaggi li conoscono tutti. Il beneficio di credibilità che il Pd ha ottenuto dal felice svolgimento delle primarie è ormai irrecuperabile per chiunque. La partita è già un’altra, ormai: se il Pd, a fronte della desertificazione di tutto il centrodestra, e della prevedibile affermazione di Grillo, sarà costretto a legarsi mani e piedi alla Cgil e a Vendola per fare maggioranza, o dovrà fare i conti, sul fronte moderato, con un alleato-competitor, in grado di fare da contrappeso a quelle spinte massimaliste che tanti timori causano nei nostri alleati europei. Fate i nomi che volete: Casini, Montezemolo, Riccardi, Olivero, Frattini, Buttiglione, Mario Mauro, meglio se tutti questi nomi sapranno, anche con nuovi apporti (Marcegaglia, Passera, Bonanni) mettersi insieme. Con Monti che ringrazia per il sostegno, anche senza scendere in campo direttamente. Magari non sarà alla fine Monti Bis, ma sarà almeno un Bersani, con Passera e Montezemolo possibili vice, che è sempre meglio del ticket Bersani-Vendola. Con Monti magari al Quirinale, a garantire sulla continuità e, chissà, Casini al Senato. Ipotesi, così, per tracciare qualche possibile scenario.

E Berlusconi? Le strade senza uscita sono destinate a essere ri-percorse all’indietro, almeno da chi fa in tempo a non schiantarsi prima. E quella intrapresa da Berlusconi è proprio una strada senza uscita. Per lui stesso, per chi gli va dietro, ma soprattutto per l’Italia.