La lettura dell’editoriale del 7 dicembre a firma di Mario Mauro mi ha lasciato un po’ perplesso, e poiché la perplessità è uno stato per me detestabile vorrei uscirne rivolgendo a lui e a chi si occupa di politica in modo responsabile alcune semplici considerazioni, che sono anche domande.

Scrive Mauro: “Il momento storico drammatico ci impone di andare a fondo di quello che siamo e di non ripetere alcuni grandi errori del recente passato”. E ancora: “La posta in gioco è particolarmente alta e tutti i cittadini europei sono chiamati a prenderne coscienza, per essere finalmente protagonisti di una costruzione, quella europea, che negli ultimi anni è sempre stata fatta sulle loro teste”. 



Il quadro è veramente drammatico. Un rappresentante importante del Parlamento europeo, che ha fatto la storia di questa istituzione ricoprendo cariche di grande responsabilità, si presenta ora davanti a noi, che abbiamo creduto nei valori culturali di cui si era fatto portatore, chiedendo sostanzialmente un surplus di fiducia: abbiamo sbagliato in passato, dice: adesso non vogliamo sbagliare più. 



Le cose non sono così semplici. Di norma, chi sbaglia prima di tutto paga, non chiede nuova fiducia sul piano politico. Deve persuadere chi già gli diede questa fiducia che può meritarla ancora, e questo non è automatico: è necessario aver fatto, prima, qualcosa di importante. La cosa importante, però, non si trova sul piano politico. Mario Mauro sembra credere ancora che una nuova strategia politica a sostegno di un vecchio progetto sempre valido (su questo concordo con lui) possa costituire la quadratura di un cerchio che in realtà è già rotto da tempo, e che ha nella cultura il suo tallone d’Achille.



Mi colpisce il fatto che l’Europa non abbia saputo dire una sola parola – né da parte dei suoi politici né da parte dei mezzi d’informazione, sempre meno liberi – sulle lotte che stanno mettendo a dura prova il popolo egiziano, un popolo pacifico, amabile e, oltretutto, amico dell’Europa. Quello che sta succedendo in Egitto è di capitale importanza non solo per quel paese, ma per tutto il Mediterraneo e per il mondo intero. Eppure non siamo riusciti a dire mezza parola autorevole su questi fatti che ci riguardano così da vicino. E non ci siamo riusciti semplicemente perché non abbiamo niente di importante da dire al riguardo.

L’Europa si sta autocondannando (ma ho paura che questa autocondanna fosse scritta fin dalla sua precaria fondazione) a una marginalità culturale e politica senza precedenti. L’Europa sta attraversando una crisi di autorevolezza come non si è mai vista nella sua gloriosa storia. Il quadro dipinto dall’on. Mauro è vero, ma dentro questo quadro c’è anche lui, perché se in Italia dobbiamo accontentarci delle liti da pollaio, non mi pare che l’Europa – a parte un po’ di contegno in più, che non guasta – sia messa poi tanto meglio.

La crisi di autorevolezza riguarda tutto il nostro continente, e i casi internazionali (ho citato l’Egitto perché è il più vicino a noi) lo dimostrano, e non da ieri. Sono vent’anni che la cultura europea sonnecchia in un silenzio rotto solo dai coretti della political correctness. L’on. Mauro deve comprendere che l’Europa è stata costruita sulle nostre teste anche da lui, e che adesso la terribile crisi di sfiducia che è una delle grandi cause dell’odierna situazione ci tocca a tal punto che nessuno – né lui né io – se ne può chiamare fuori. Ma, se è stato anche lui a costruire l’Europa sulle nostre teste, perché adesso dovremmo credere che agirà diversamente?

L’on. Mauro è ancora persuaso che sarà la politica a salvare l’Europa. Se la pensasse diversamente, nel suo editoriale comparirebbe a chiare lettere il nome di Silvio Berlusconi, il suo pensiero sarebbe espresso senza sottintesi: il ritorno di Berlusconi è un disastro per l’Italia e per l’Europa! Invece si nasconde nuovamente dietro un linguaggio obliquo, fatto di segnali, ammiccamenti, messaggi in codice.

Comprendo quei messaggi, e li condivido: ci sono persone a noi amiche che stanno avallando il suicidio dell’Italia. Ma è sulla cultura – ossia sull’educazione, sulla memoria, sulla trasmissione della conoscenza – che si gioca la nostra virilità umana e politica. A costo di saltare qualche pranzo. A costo di perderci la faccia. A costo di dover andare a coltivare cipolle per sopravvivere. A costo di dare l’assalto (metaforico, ma talora le metafore si dissolvono da sole) a qualche palazzo. Perché una cosa è certa: quando si comincia a far cultura sul serio, le rendite di posizione diventano molto, molto incerte.