Dietro la trattativa sulla legge elettorale, rilanciata dal Pdl, c’è chi vede le basi per una futura “grande coalizione” e chi il doppio gioco di Silvio Berlusconi. Secondo Gianluigi Paragone, invece, ciò che sta accadendo va letto alla luce di una premessa fondamentale: siamo all’ultimo miglio della Seconda Repubblica e la crisi d’identità dei partiti è molto più profonda di quella che sembra.
«I protagonisti di questa fase sono attori deboli e invecchiati – spiega a IlSussidiario.net il conduttore de L’Ultima Parola –. Parlo di Berlusconi, Bossi e per alcuni versi Bersani, che in questi anni ha vissuto nel “rovescio” del berlusconismo, ma comunque all’interno dello stesso perimetro. In questi timidi tentativi di riforma infatti non vedo il desiderio di recuperare un rapporto con i cittadini, casomai quello di salvare se stessi. Non sarà però la legge elettorale a ridare smalto ai partiti».
Possiamo ridurre tutto a una battaglia di conservazione?
In qualche modo sì, anche se anche il termine “battaglia” è una parola stanca. Quel tempo è finito, oggi le famiglie, i lavoratori e gli imprenditori vogliono sapere quali sono le reali condizioni del Paese. Non sono interessati alle lotte di bottega.
Vedo però un rischio.
Quale?
Che gli italiani rimangano schiacciati da due scenari. Da un lato una politica che per forza di cose è consunta, dall’altro l’esecutivo di Mario Monti che si appoggia alla debolezza del Parlamento, ma apre il compasso ai suoi veri interlocutori: la Bce, il Fondo monetario, i contesti finanziari. Questa è la vera “maggioranza” di Monti, mentre il programma è già tutto scritto nella famosa lettera della Banca centrale europea.
All’interno dei partiti lei non vede nemmeno dei piccoli segnali di rinnovamento?
Nella Lega Nord abbiamo visto un ex numero due diventare numero uno, Roberto Maroni. Oggi, non c’è dubbio, ha la forza e la credibilità per fare il capo del partito. Può guidare una Lega che sta cambiando pelle, che riparte dai sindaci e che può avere toni nuovi. Maroni, infatti, è l’unico dei leghisti ad aver avuto un’esperienza ministeriale di tutto rispetto. Ha una grammatica da uomo delle istituzioni e, sotto di sé, una rete di personalità come Tosi, Giordano e Fontana, che non si è consumata nel berlusconismo.
Dovrà però decidere dove andare.
Certo, anche se è comprensibile l’esigenza dell’ex ministro dell’Interno di interrompere l’alleanza con il Pdl. C’è un’identità da irrobustire e soprattutto è troppo presto per sapere cosa diventerà il centrodestra.
Certo, quello che si cucinerà nel “forno padano” dovrà comunque trovare degli sbocchi, ma il Carroccio per il momento non ha alcuna fretta di stringere accordi.
E riguardo al Pdl quali sono le sue impressioni?
Qui invece l’iniziativa è ancora in mano al solito numero uno, anche se in questo caso Berlusconi ricorda quei fuoriclasse che, col passare degli anni, si riducono a giochicchiare a centrocampo. È una mossa tattica che lascia il tempo che trova. Il suo elettorato non è abituato a vederlo così.
L’unica partita che il Cavaliere può davvero giocare in questo momento è quella per la scelta del nuovo scenario in cui potrà rinascere il centrodestra, senza attardarsi a cercare l’“uomo nuovo”. Quello invece non c’è, le vesti dell’ex premier non possono giocarsele i colonnelli a dadi.
Il quadro politico di domani potrebbe vedere da un lato un partito che fa riferimento al popolarismo europeo e dall’altro un blocco socialdemocratico?
Se ne parla, anche se credo che sia più facile per il Pdl mettersi nel solco del Ppe che non per il Pd agganciarsi alla socialdemocrazia europea. In Italia non c’è mai stata, per la presenza di un partito comunista molto forte e di un Psi molto diverso da un partito socialdemocratico. Più probabile che i democratici ammettano che il Pd è nato da una fusione fredda e diventi qualcosa di diverso.
E quanto manca secondo lei per terminare quest’“ultimo miglio”?
Non credo che basterà arrivare al 2013. La transizione interesserà di certo anche la prossima legislatura. Chi è salito sulla giostra della politica con il vestito da tecnico non resterà infatti solo per un giro. Ma per costruire qualcosa di duraturo che apra, diciamo così, la Terza Repubblica servirà del tempo.
Nel frattempo il Paese dovrà prendere delle decisioni strategiche. Abbandoneremo le Pmi, salvando quello che resta dell’asset industriale e puntando tutto sui servizi? La parola ai tecnici…
(Carlo Melato)