E’ sempre difficile comprendere Antonio Di Pietro, ex pm del “manipulitismo”, milanese e nazionale, e oggi leader dell’Italia dei valori. La sua grammatica, la sua sintassi, l’analisi logica, la consecutio temporum con i periodi ipotetici, i congiuntivi e i condizionali, sono talmente innovativi che la sua oratoria straccia letteralmente i canoni classici da Demostene a Churchill. Ha creato, insomma, una “nuova scuola”, l’eroe di “Tangentopoli”, il “Nembo Kid” della custodia preventiva. Non ha risparmiato una sorpresa neppure nella commemorazione dei venti anni di quell’inchiesta che ha “rivoltato l’Italia come un calzino” (per evocare un’immagine del suo collega e amico, Piercamillo Davigo) affermando che «avevamo un Paese malato grave, di un tumore grave: oggi siamo alla metastasi». Voleva essere allusivo? Oppure voleva dimostrare che il chirurgo del 1992 è stato tecnicamente un “cane”? C’è da chiedersi, a questo punto, chi c’era allora in “sala operatoria” intorno a quel paziente così corrotto, corruttore, tangentaro, ladrone, sprecone e arrogante. Mentre fuori dall’“ospedale” c’erano fiaccolate di sostegno per l’operazione di guarigione.



C’è una strana teoria che è emersa in questi vent’anni. Dopo la partenza di quella “rivoluzione di velluto”, così la chiamarono all’inizio i cosiddetti “watch dog” della grande stampa italica, ci doveva essere una “fase di transizione” che avrebbe aperto le porte a una società italiana virtuosa, disinfestata dal malaffare e dalle tangenti, soprattutto dai partiti e dalla “sporca” politica. Sarebbe andato a posto tutto: il bilancio statale, il debito pubblico, la concorrenza in campo economico e sarebbe stata premiata la meritocrazia. In più avremmo avuto, dopo alcuni “referendum ad hoc”, un sistema politico bipolare che ci avrebbe garantito l’ingresso nell’aeropago delle grandi democrazie occidentali, con leader “granitici”, determinati, puri e disinteressati. Come si intuisce da un’intervista di Ferruccio De Bortoli all’avvocato Gianni Agnelli del 20 febbraio 1996, l’Italia sotto la spinta di “privatizzazioni” e “liberismo” (non liberalizzazioni, ma sarà stata una dimenticanza) si sarebbe affrancata dal peso di un potere politico «che continuerà a nominare i manager».



In più c’era una magistratura vigilante, attenta e scrupolosa che avrebbe inchiodato “i disonesti” alle loro responsabilità. Come è potuto accadere che tutto questo, con la nascita della cosiddetta “Seconda Repubblica”, non si sia verificato? E dopo il cancro, sia arrivata addirittura la metastasi? La colpa è proprio tutta di Silvio Berlusconi e delle sue “travianti” televisioni? Si dice che Berlusconi, oltre alle risse con i “comunisti” e con la magistratura, sostanzialmente non abbia fatto nulla, ma abbia solo occupato dei posti di potere oltre a non realizzare neppure la riforma giustizia di cui i magistrati non volevano neppure sentir parlare. Ma in questi venti anni non ha governato solo Berlusconi. Intanto la magistratura ha “silurato” qualche governo di centrodestra o di centrosinistra. Intanto le privatizzazioni si sono trasformate nella maggior parte dei casi in monopoli privati tanto da indurre il nuovo “governo dei tecnici” a prevedere, nel 2012 allo scadere del “ventennio”, una lenzuolata di liberalizzaioni che riguardano… taxi, farmacie e notai. E poi ci sono stati integerrimi presidenti della Repubblica, come Oscar Luigi Scalfaro, che bocciò il “decreto Conso”, come Carlo Azeglio Ciampi, come l’attuale Giorgio Napolitano.



Non ci sono più Craxi (morto), Andreotti (processato come capo di una cupola mafiosa), Forlani, Cirino Pomicino, Citaristi. Non ci sono più gli apparati di cinque partiti democratici “cancellati” dalla “rivoluzione di velluto”. E allora come mai la catarsi si è fermata? Chi l’ha fermata? Chi non ha permesso di concludere il processo di decontaminazione tangentizia? Proviamo a ragionare come fanno i grandi finanzieri di Wall Street, o i manager delle multinazionali (che qualche tempo fa, prima della grande crisi, sembravano i più simpatici e i più bravi di tutto il mondo), in base ai risultati. Secondo la Corte dei Conti la corruzione dilaga in Italia oggi più che nel 1992 e ci costa 60 miliardi di euro all’anno (un poco più di una manovra prevista dal “Fiscal compact”).

Secondo “Transparecy International”, l’Italia ha fatto passi da gigante nella corruzione: siamo al 67° posto. In Europa fanno peggio dell’Italia solo Romania, Bulgaria e Grecia. A livello mondiale talloniamo a fatica il Ruanda. In compenso, con la “rivoluzione di velluto” e la spinta liberista alle privatizzazioni, l’Italia non cresce più dal 1995, dopo aver perso anche diversi asset economici strategici. E nessuno, che sta “sempre sul pero”, riesce a darsi una spiegazione del perché sia ormai diffusa non la sensazione, ma la convinzione che non esista più la politica e una classe politica degna di questo nome. Come mai è accaduto tutto questo? Se Tangentopoli fosse stato un investimento speculativo, visti i risultati, persino un finanziere come George Soros (premiato a Bologna il 30 ottobre 1995 con una laurea honoris causa, accompagnato da Romano Prodi) andrebbe fuori dai gangheri. Per non parlare del citatissimo Warren Buffet, quello che specula come un “maestro” da cui imparare e ha partecipazioni nelle agenzie di rating che sconvolgono ogni giorno l’andamento dei mercati finanziari. Insomma, un bilancio da fallimento, un investimento per un’azienda che dovrebbe portare i libri in tribunale.

Ma dimenticavamo che qui si tratta di un investimento etico. E sull’etica non si scherza, di questi tempi. E’ stato etico evidentemente il suicidio di Sergio Moroni, di Raoul Gardini, di Gabriele Cagliari. Etici anche gli arresti di manager come Lorenzo Necci, Franco Nobili, Vito Gamberale, che poi sono stati assolti. Solo alcune citazioni in una mare di “presunta illegalità”. Etico che si sia trasmesso in televisione il processo (ormai un cult) sulla maxi-tangente Enimont (circa 100 miliardi di lire) e si sia preso atto della liquidazione, in seguito a dimissioni largamente “desiderate”, del banchiere Alessandro Profumo: 40 milioni di euro, più due dati in beneficenza. Totale, 84 miliardi di vecchie lire italiane.

Forse, in una fase storica più tranquilla, si riuscirà a ricostruire meglio quello che è accaduto in quegli anni, non solo attraverso i “gadget” del Corriere della Sera. Si capirà l’incapacità generale di comprendere quello che è avvenuto nel 1989, quando il mondo bipolare è mutato radicalmente nei suoi connotati geostrategici e di rapporti politici.

Non lo comprese la vecchia classe politica italiana, ma di certo non l’hanno compresa i successori e i presunti “rivoluzionari” al velluto. Non siamo mai riusciti a comprendere perché nessuno diede una risposta convincente a tre discorsi, tre perentori inviti fatti da Bettino Craxi in Parlamento: «I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi e piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Non si alzò mai nessuno. Chissà se si sarebbe alzato l’ex tesoriere della “Margherita”, Luigi Lusi, facendo vedere il conto corrente alleggerito di 13 milioni di euro? No, perché è un senatore. Intanto però, il discorso di Craxi fu usato dai magistrati di “mani pulite” come capo di accusa. Un capolavoro di sapienza al contrario.