Angelino Alfano e Pierluigi Bersani sono leader tutt’altro che sprovveduti e di notevoli ambizioni: hanno entrambi come meta di andare tra poco più di un anno a Palazzo Chigi.
Hanno però in comune l’abbaglio di aver considerato Mario Monti una mera parentesi. Non si sono resi conto di essere di fronte – piaccia o meno – a una soluzione di continuità molto seria. Quel che sembrava “un coniglio tirato fuori dal cappello” è oggi vissuto nel Paese ben diversamente. Nonostante i limiti e anche gli errori (aumento della pressione fiscale con tagli solo “simbolici” alla spesa pubblica, evidenti effetti recessivi, gaffes a ripetizione sulla “noia” del posto fisso, gli “sfigati” e i “bamboccioni”, ecc.) il dato di fatto è che oggi la sostituzione di Monti appare come un passo indietro o un salto nel buio.



L’errore fatale è stato quello di rifiutare la proposta di Napolitano di entrare a far parte del governo. In verità solo Berlusconi si era reso conto che era meglio accettarla, ma Bersani non voleva “sporcare” il Pd e nel Pdl prevaleva l’idea di una rivincita a portata di mano. Nel complesso i vertici dei partiti erano convinti che il governo tecnico sarebbe stato un esecutivo fragile, di mera decantazione e tregua, utile per una raffica di provvedimenti impopolari per poi andare alle elezioni anticipate con le vecchie coalizioni e la stessa legge elettorale.



Giorgio Napolitano ha cercato di “politicizzare” (a cominciare dalla nomina di Monti a senatore a vita) il governo, ma i segretari dei partiti sono stati completamente sordi e ora stanno insistendo in due ulteriori errori.
Primo: non si preoccupano di proporre una lettura “politica” della crisi economica e finanziaria lasciando l’”egemonia” a una versione tecnica univoca da, tutt’al più, emendare dando così l’impressione di considerare la crisi solo una sorta di virus da affidare a Mario Monti come medico di famiglia.

Secondo: si sono ritagliati come principale spazio – specifico e visibile – l’argomento della “politica dei posti” ovvero composizione delle Camere e legge elettorale autodegradandosi agli occhi dell’opinione pubblica, rispetto a Monti, a “tecnici” dei problemi della politica e non del Paese.



In sostanza: o entravano al governo o andavano a elezioni anticipate. Sono invece finiti “in mezzo al guado”. L’incapacità o l’impossibilità di percorrere una di quelle due strade li ha portati  sul piano inclinato di una autodeleggitimazione. Oggi il fatto che il Parlamento italiano – unico nel panorama delle democrazie occidentali – sostiene un governo totalmente extraparlamentare ovvero che di fronte a una situazione seria i politici “passano la mano”, dà l’immagine di un “otto settembre” della politica italiana.

La pietra tombale è stata messa ultimamente con Mario Monti che – suscitando anche un certo orgoglio nazionale – riscuote elogi per l’Italia sul palcoscenico della Casa Bianca e dell’Unione Europea. I leader dei principali partiti che intanto discutevano dei guasti del sistema politico “maggioritario”, da essi inventato e vissuto, sono apparsi come “Italietta”.
Non è continuando ad apparire come un pool di azzeccagarbugli dei sistemi elettorali da importare dall’estero che essi possono riconquistare una leadership agli occhi del Paese. Il risultato è che il tema più dibattuto ormai è l’auspicio che si prolunghi  l’intesa – da essi sostenuta stando fuori dalla scena – anche nella prossima legislatura.

In sostanza: il dopo Monti non è più né un governo Alfano, né un governo Bersani. Il momento della verità è rappresentato dall’ormai imminente scadenza delle elezioni amministrative. Si tratta di un test relativamente contenuto, ma sufficiente per verificare se Pdl e Pd siano ancora le colonne portanti del bipolarismo.
Nel 2008 il bipartitismo sembrava a portata di mano, ma Berlusconi e Veltroni non ebbero la forza di crederci in modo conseguente e lasciarono “licenza di uccidere” a Bossi e a Di Pietro. Da allora è iniziato il riflusso con le speculari scissioni dei rispettivi cofondatori (prima Rutelli e poi Fini).

Evaporato il bipartitismo è emerso come tema centrale il “Parlamento dei nominati”. Da allora è cresciuta la polemica sulla “casta” e i “costi della politica” mentre Pdl e Pd continuavano a dividersi e a sbandare. Il Pdl ha perso la maggioranza parlamentare e il Pd perdeva le “primarie” di coalizione.
E così mentre Monti si consolida in un governo senza i partiti, i partiti continuano a perdere quota e a volare sempre più basso rispetto al dibattito su ciò che preoccupa maggiormente gli italiani e di cui essi sembrano – anche a torto – i principali responsabili.

Si sono messi su quel piano inclinato che li porta disarmati nel mirino di un’antipolitica indiscriminata alimentata da paure e sacrifici che colpiscono la popolazione. Il passo indietro della “politica” in una situazione di emergenza nazionale appare infatti come un’ammissione di responsabilità e di incapacità.
Con il Pdl di Alfano e il Pd di Bersani così imbambolati, la prossima scadenza delle elezioni amministrative rischia di tradursi in uno “tsunami” – a cominciare dal fenomeno delle liste civiche – con i risultati che seppur parziali saranno letti per una generale delegittimazione del Parlamento. Si rischia di finire nel giro di poche settimane come nel 1993. Il messaggio della consultazione elettorale potrebbe appunto essere: cambiate la legge elettorale e andatevene. Una condanna in blocco come “Italietta” della cosiddetta “Seconda repubblica”. Ma non certo per tornare alla “Prima”.

Forse non è molto lungimirante da parte dei vertici del Pdl e del Pd continuare a non discutere seriamente se l’attuale crisi non abbia bisogno anche di letture politiche e su quali conseguenze essa stia determinando nella vita democratica dei singoli paesi e delle istituzioni comunitarie.