Eccola. È la sentenza che certifica lo stallo di un’epoca, l’assedio che non ha mai espugnato Arcore, la battaglia senza vincitori e vinti. Il processo Mills finisce con un verdetto double face, comodamente all’italiana: Berlusconi non è innocente, ma non si riesce a dichiararlo colpevole. Come, a suo tempo, Andreotti la cui vita, in mancanza di meglio, fu spaccata dai giudici in due come una mela: organico alla vecchia Cosa nostra (fino al 1980, con prescrizione), e nemico numero uno della mafia dopo quella data (con relativa assoluzione). Alchimie italiane. Conseguenza di un ventennio avvelenato, cominciato col peccato originale di Antonio Di Pietro che nell’ormai lontano 1994 disse al capo del Pool Francesco Saverio Borrelli, riferendosi al Cavaliere: «Io a quello lo sfascio». Elegante esordio di una guerra infinita che peraltro Di Pietro non combattè perchè si tolse la toga giusto prima dell’interrogatorio per iniziare una seconda vita, in competizione con Berlusconi.



Oggi  si può leggere quella sentenza in molti modi, persino come una variante esistenziale di un celebre racconto di Conrad, in cui i duellanti vanno avanti per tutta la vita a incrociare le spade. Ma qualche riflessione in più è possibile. Comunque si giudichi questa epopea controversa, si deve constatare che nemmeno uno dei venticinque procedimenti (in realtà il conto esatto non ce l’ha più nessuno) aperti contro il Cavaliere è arrivato fino alla condanna. Nemmeno uno. Assoluzioni, assoluzioni con la formula dubitativa, depenalizzazioni all’ultimo minuto, leggi ad personam, condoni, tutto e il contrario di tutto, il dato alla fine resta: non c’è una condanna che sia una nel libro nero del Cavaliere. Anche questa volta è andata così, con l’aiutino della prescrizione: la procura ha tentato in tutti i modi, sostenendo tesi paradossali, quasi surreali, di rianimare il cadavere del processo, ma alla fine ha dovuto arrendersi. Era morto da un pezzo. Ora verrà seppellito con doppio funerale separato: un ricorso per la procura, un altro per i legali dell’ex premier.



Per Berlusconi, invece, la data dell’uscita di scena si allontana. Sia chiaro: il capo del governo non è più lui e sul trono non tornerà più. Però, in certo qual modo e contro tutte le previsioni, il Cavaliere sta acciuffando per la coda l’erede che nessuno si aspettava. Sarà un azzardo affermarlo, ma in qualche modo Monti e il montismo cominciano  a configurarsi come i continuatori del berlusconismo.
Anzi, Monti sta portando a casa alcune delle riforme che il Cavaliere aveva promesso e la sua maggioranza aveva decapitato lungo la strada. Ora quella strada, che sembrava sbarrata, è stata riaperta in cento giorni dal professore con il loden.



Pensioni. Presto, si spera, mercato del lavoro. Liberalizzazioni Fisco. Chissà, a breve l’infiammatissima giustizia. Il Berlusconi che non è stato abbattuto dagli avvisi d garanzia è stato condannato dal non aver fatto Berlusconi fino in fondo. Dal non aver portato a termine quelle riforme annunciate, riannunciate e non varate. Ora, si fa sul serio.

E si comincia a intravedere una metamorfosi stupefacente più di quella descritta da Kafka, Il governo dei banchieri, nato con l’ostilità del centrodestra e percepito da mezza Italia come il governo del Liberatore, quello che ci avrebbe portato finalmente al 25 aprile, si sta rivelando sempre più di destra. Sempre più vicino alla matrice berlusconiana della prima ora e alle speranze del ceto medio.
Certo, lo stesso ceto medio è stato sottoposto a un diluvio di tasse, accise, addizionali nei primi giorni del nuovo esecutivo. Poi però è cominciata la risalita. Ora si tratta di capire se la medicina trangugiata curerà il malato o finirà con l’ucciderlo, spingendo l’Italia giù per il baratro della recessione.

Monti e il montismo offrono in embrione un rinnovamento al centrodestra che sembrava incatenato mani e piedi ai destini del Cavaliere. A sinistra, invece, i nodi stanno venendo al pettine. E il Liberatore si sta  trasformando in un nemico.