Sono gli ultimi giorni per tentare le elezioni anticipate nel 2012 e gli antimontiani sono in fibrillazione a destra e a sinistra.
Sulla destra si tratta soprattutto dei “nuovisti” e cioè di coloro che al motto “meno siamo meglio è” sostengono il ritorno allo “spirito del ’94” e sono convinti che – finalmente – senza ex Dc ed ex Psi, ma nel solco delle radici più coerentemente anti-Prima Repubblica e cioè della destra liberale e missina, sia a portata di mano lo sfondamento elettorale.
Ma è una destabilizzazione dal fiato corto in quanto è evidente che l’esito elettorale – tra sfaldamento della maggioranza di governo e perdita di carisma – non si preannuncia positivo. Berlusconi infatti preferisce guadagnare tempo e cogliendo a volo l’insofferenza per il suo presenzialismo contestatogli dai vertici del Pdl, si è volentieri defilato dalla campagna elettorale scaricandone l’esito presumibilmente non esaltante sulle spalle di Alfano.
Più vistosa è invece la contestazione di Monti da parte della sinistra. La ragione è evidente: caduto Berlusconi si aspettavano l’Armata Rossa e invece sono arrivati gli anglo-americani. Nell’intellettualità di sinistra è tutto un vociare di “Resistenza tradita” e “continuità dello Stato”. Bersani, accusato di aver fatto con l’appoggio a Monti (appoggiato da Berlusconi) una sorta di “svolta di Salerno”, promette che la “rivoluzione” è solo rinviata. È il famoso “ritorno della politica” che nel 2013 farebbe uscire di scena Monti (e Napolitano) di cui parlano con molta sicumera sia D’Alema sia De Benedetti.
È così che il “ritorno della politica” viene caldeggiato con la denuncia di un “deficit di democrazia” che si starebbe consumando con il “governo tecnico” e il “vincolo esterno” (e cioè la sovrintendenza degli organismi comunitari dell’Unione Europea).
Il punto debole di questa alternativa di sinistra è la mancanza di una lettura politica della crisi. Si ha l’impressione che per “la fotografia di Vasto” (Pd-Sel-Idv) la crisi sia un “virus” da aspettare che passi, subendo Monti – “medico di famiglia”, stando a letto con la borsa del ghiaccio in testa e il termometro in bocca ancora per qualche settimana.
E invece crescono i “montiani” sia nel Pd sia nel Pdl in quanto, in entrambi gli schieramenti, c’è chi si preoccupa di una lettura più seria della crisi che riguarda l’Italia e che va affrontata non ritornando al già fallito bipolarismo che ha messo il maggioritario in balìa delle componenti più estremistiche della destra e della sinistra.
La crisi non è un virus, ma la conseguenza di un attacco esterno e di una frana interna all’Europa. Sul fronte esterno c’è da un lato quel che l’ex cancelliere Helmut Schmidt ha definito un attacco proditorio di alcune migliaia di speculatori e agenzie di rating che tengono in ostaggio paesi europei e dall’altro una competitività aggressiva di paesi “emergenti” che sfruttano il fatto che non possiamo certo far lavorare gli italiani come i cinesi fanno lavorare i cinesi con alle spalle non quarant’anni di articolo 18, ma quarant’anni di sfruttamento comunista.
Sul piano interno nei paesi dell’euro è stridente la contraddizione tra “patti di stabilità” e Stato sociale. Corruzione ed evasione fiscale vanno certo perseguite, ma l’indebitamento è frutto di case, scuole, ospedali, cassa integrazione, trasporti pubblici, infrastrutture, finanza locale e ricerca. Sono cioè a rischio coesione sociale e competitività. Nella situazione in cui siamo – sostengono i “montiani” del Pdl e del Pd – la risposta deve essere europea se si vuol evitare un degrado, non solo demografico, del ruolo europeo sulla scena mondiale rassegnandoci al duopolio Washington-Pechino.
È in questo senso che va considerato con attenzione l’appello bipartisan pubblicato contemporaneamente dal Corriere della Sera e da Die Welt firmato da esponenti del centro-sinistra e del centro-destra come Romano Prodi, Franco Frattini e Giuliano Amato insieme a personalità tedesche vicine ad Angela Merkel. In esso si caldeggia un passo avanti nell’integrazione europea unificando non solo difesa della moneta, ma mettendo insieme politica fiscale, esteri, difesa e ricerca.
Maggiore integrazione significa minore conflittualità. Se si deve organizzare una risposta europea occorre imboccare come “uscita di sicurezza” una collaborazione di stampo europeo. Ciò non significa “deficit di democrazia” e subalternità a “vincoli esterni”, ma un passo avanti dei partiti e maggior democrazia nel tutelare la comunità. In che senso? La verità è che siamo di fronte al coincidere di una stagione di sacrifici con una stagione di tre anni di pesanti campagne elettorali: nel 2013 le politiche, nel 2014 vota tutta l’Europa con una drammaticità inedita e poi nel 2015 votazioni amministrative e di particolare rilievo le Regionali in Italia. Una stagione di sacrifici e di elezioni che non possono essere gestite rincorrendo estremismi e corporativismi. Occorre che le principali “anime” dell’Unione europea e dei paesi dell’euro siano i due piatti di una stessa bilancia.
Non possiamo permetterci la bilancia di un piatto solo, la falsa bilancia su cui Brenno lanciava la spada al motto “Guai ai vinti”. Quale immediato futuro ci aspetta? Tre anni di campagne elettorali al motto: chi vota per me la scampa, chi vota contro di me la paga?
Siamo in una situazione in cui occorre adottare un “modello europeo” di convergenza tra laburisti e conservatori britannici, gollisti e socialisti francesi, socialdemocratici e democristiani tedeschi. Si lotta e si vota, un piatto peserà più dell’altro, ma – senza rinunciare a identità e competizione – nessuno può non tener conto dell’altro. Minor democrazia? Probabilmente è il modo più democratico per affrontare e ripartire i sacrifici come si è sempre fatto in Europa nei momenti di ricostruzione nazionale.
Ma questa strada di convergenza sia pur tra identità ben distinte, va intrapresa anche prima della scadenza elettorale del 2013. Un’occasione può essere la riflessione generalmente autocritica che comporterà il risultato delle elezioni del 6 maggio. La collaborazione tra le principali “anime” della politica europea non significa “governo dei tecnici” e spoliticizzazione. L’esecutivo Monti ben difficilmente regge il ruolo di mero governo dell’economia. Il fatto di aver assegnato i ministeri che, fino all’ultimo momento, si pensava di affidare a Giuliano Amato e a Gianni Letta a un ambasciatore e a un militare è stata una imprudenza.
Nessun ambasciatore – per quanto bravo possa essere – è accettato come un interlocutore “alla pari” dalle cancellerie degli altri paesi. Mandare una nave da acque internazionali in un porto del “terzo mondo” sotto intimazione e ordinare a due militari di lasciare un luogo dove sventolava il tricolore per consegnarsi a poliziotti stranieri è una condotta assolutamente irresponsabile. Così come il tardivo coinvolgimento dell’Unione Europea ha sfiorato il ridicolo nel momento in cui non si è nemmeno stati capaci di spiegare alle autorità europee che i militari italiani non erano “vigilantes” privati a pagamento.
Il governo Monti ha le redini in buone mani in campo economico, ma dalla politica interna a quella della difesa occorre un passo avanti dei partiti che lo sostengono il più rapidamente possibile. Nei prossimi tre anni si cristallizzeranno equilibri e graduatorie tra stati e continenti. Non possono essere per l’Italia tre anni né “tecnici”, né “elettoralistici”.