Gianni De Michelis, ministro socialista del Lavoro del governo Craxi dal luglio del 1983 a metà 1987, guarda con interesse questo passaggio della politica italiana segnata dal “governo dei tecnici” di Mario Monti. E in un certo senso è anche compiaciuto dalla caduta della cosiddetta politica di concertazione avvenuta con la riforma del lavoro. De Michelis azzarda un’ipotesi: “Forse è caduto il cattocomunismo”.



De Michelis, andiamo con ordine. Fu Bettino Craxi con il famoso decreto di San Valentino del 1984, quello sulla scala mobile, a dare una spallata alla concertazione che imperava e forse è ancora imperante.

Bisogna ricostruire bene quella vicenda, perché è indicativa di un lungo periodo storico di vita politica italiana. Craxi e io, come ministro del Lavoro, cercammo fino all’ultimo un’intesa con la Cgil. Partivamo dal presupposto che occorreva mantenere il consenso sociale e cercare ogni possibile intesa, ma poi che alla fine occorreva decidere nell’interesse del Paese e dei lavoratori.



Quindi come vi muoveste?

Al contrario di quello che si disse e si dice ancora, ricordo che fino all’ultimo cercammo un accordo con la Cgil. E Luciano Lama, che allora era il Segretario generale, si era dichiarato disponibile. Ritoccando qualche cosa, l’intesa si sarebbe trovata. Il problema è che arrivò, perentorio, il “no”, il veto di Enrico Berlinguer, il segretario del Pci.

Il motivo di quel rifiuto?

Berlinguer sosteneva che un governo a guida socialista non poteva prendere una decisione senza tenere conto del Pci, del partito comunista. Era il periodo in cui i comunisti dicevano che “bisognava sempre fare i conti con il Pci”, in qualsiasi iniziativa. Del resto il fatto era avvenuto anche durante il varo dello Statuto dei lavoratori, dove il regista era stato il ministro socialista Giacomo Brodolini e l’estensore della legge era stato il socialista Gino Giugni. In quell’occasione i comunisti si astennero. Adesso, naturalmente, l’articolo 18 sembra la loro unica ed esclusiva bandiera. Ma nella riformulazione di oggi, quella che propone il governo Monti, l’articolo 18 corrisponde di più allo spirito originario.



Ma nel dare una prima spallata alla concertazione, avete avuto  dei problemi anche con Confindustria.

In quel momento, il presidente di Confindustria era Merloni. Ma tra li industrali ci fu una spaccatura profonda e il sì di Confindustria fu veramente strappato sul filo di lana. Naturalmente votarono contro De Bendetti e Romiti, seguendo un suggerimento che veniva da Giovanni Spadolini. Fu invece l’avvocato Agnelli a decidere sul sì, perché seguì le indicazioni di Bruno Visentini. Il confronto in Confindustria era un riflesso di una differente posizione nell’area del Partito repubblicano, tra Spadolini e Visentini.

Quello scontro fu durissimo e segnò tutta la politica italiana degli anni Ottanta. 

Fu così. Era la partita politica che si giocava tra il blocco cattocomunista da una parte e i riformisti dall’altra. Intendiamoci, nel blocco cattocomunista c’erano forze eterogenee, era un blocco composto anche da pezzi dell’industria privata, da pezzi dell’industria pubblica. Era un blocco trasversale. E’ quello stesso blocco che poi ha segnato il mutamento politico italiano allinzio degli anni Novanta.

 

A questo punto, con la concertazione che va in soffitta cambia il quadro politico?

 

Direi proprio di sì. La rottura del blocco cattocomunista mi pare sotto gli occhi di tutti e magari l’Italia si avvia verso un tipo di politica che assomiglia a quella europea. La vera differenza che io vedo tra il 1984 e il 2012 è questa: nel 1984 fu il Pci a mortificare la Cgil, a richiamarla duramente all’ordine e a metterla in crisi; oggi, nel 2012, è la Cgil di Susanna Camusso, incapace di liberarsi dall’ideologia della Fiom, che mette in crisi i postcomunisti di Pierluigi Bersani.

 

Appunto, Bersani e il Pd. Come si comporteranno in Parlamento? Che ripercussioni ci saranno nel Pd?

 

Bersani è sotto pressione, o meglio nell’occhio del ciclone. Ha già l’Italia dei valori e il partito di Nichi Vendola che sono con la Cgil. Poi c’è la “pancia” del Pd che  difficilmente riuscirà a digerire un fatto del genere. Ma di certo Bersani non può votare contro il governo Monti. In questo caso c’è una differenza con la situazione dell’inizio d’anni Novanta, che è interessante valutare.

 

Quale, esattamente?

 

Quando cadde il comunismo sovietico e cominciarono gli anni Novanta, noi socialisti cercammo un collegamento con i “miglioristi” del Pci, mettendoli nelle nostre liste, coinvolgendoli al massimo in una prospettiva di autonomia socialista e riformista. In quell’occasione fu Giorgio Napolitano che non collaborò molto o comunque non concluse quel percorso che era in atto. Ma oggi, il Napolitano presidente della Repubblica  sta con il governo di Mario Monti e contro la linea della Cgil.

 

(Gianni Da Rold)