La riforma del mercato del lavoro è da giorni al primo posto dell’agenda politica italiana e sta rimettendo in discussione i delicati equilibri della larga maggioranza che sostiene il governo Monti. Il tema non interroga però soltanto il Pd. Il Pdl infatti ha organizzato per lunedì 26 marzo la sua prima conferenza nazionale sul Lavoro, che sarà conclusa da Angelino Alfano. «Parteciperanno i rappresentanti di moltissime parti sociali – spiega a IlSussidiario.net l’ex ministro del Welfare, Maurizio Sacconi – oltre che assessori regionali, dirigenti e quadri del partito che si dedicano all’obiettivo di una società attiva, di una società inclusiva, e che intendono il lavoro non come l’epicentro di un virtuoso conflitto, ma come il modo con il quale evidentemente la persona esprime le proprie potenzialità per sé e per gli altri, in relazione con gli altri».
Senatore Sacconi, di recente lei ha parlato dell’unicità di Marco Biagi tra le vittime del terrorismo. Cosa intende di preciso?
Si tratta di una considerazione oggettiva. Nessuna vittima del terrorismo ha avuto tante iniziative rivolte alla sua memoria e nel corso di questi 10 anni sono cresciute, non si sono attenuate. Anche in questo decennale, e questo è il punto più importante, sono molti gli eventi che ne hanno ricordato le sue intuizioni: la figura di Marco Biagi si evidenzia soprattutto per l’attualità del suo pensiero e delle sue proposte che in parte hanno avuto attuazione ma che richiedono quel compimento che dovrebbe consistere proprio in quello che ho chiamato “l’ultimo miglio” delle riforme, che è quello più faticoso.
Perché?
Perché deve riguardare una compiuta simmetria tra le esigenze di flessibilità organizzativa delle imprese e quelle di sicurezza per i lavoratori nel contesto di un mercato del lavoro inesorabilmente mobile.
A questo proposito, qual è il suo parere rispetto alle misure pensate dal governo che ora andranno al vaglio del Parlamento?
A Milano presenteremo un Manifesto valoriale e progettuale per il lavoro e indicheremo in quella sede anche una puntuale valutazione delle misure che ci auguriamo il governo assumerà oggi in Consiglio dei ministri. In questo momento posso solamente dire che condividiamo l’impostazione, quella cioè che ho richiamato prima. Sono stati evidenziati dei compromessi che non sempre condividiamo ma che sono inevitabili per un governo sostenuto da una coalizione di idee diverse. Mi auguro però che questo compromesso non si sposti ulteriormente nella direzione della rigidità, perché l’obiettivo per cui questo miglio deve essere compiuto e compiuto ora, secondo indicazioni che non a caso provengono dagli organismi sovranazionali, è che si deve produrre una maggiore propensione ad assumere e a intraprendere.
Come procederà secondo lei l’esecutivo?
Qualora il governo dovesse utilizzare un ddl ordinario vorrebbe dire che ha voluto soltanto dare l’impressione di una riforma. Non voglio pensare questo, ma un ddl ordinario sarebbe una presa in giro. Avrebbe inesorabilmente tempi lunghi, soprattutto se fosse un ddl delega, in un momento pre-elettorale. Lascerebbe in pasto ad un disorientato gioco parlamentare una materia che non a caso si è rivelata sempre divisiva e che richiede quindi, nel doveroso esame parlamentare, una guida forte da parte del governo che deve dire qual è il suo ambito di compatibilità, qual è lo spazio di compatibilità con le convinzioni che il governo ha e che per lo più dovrebbero coincidere con quelle dell’agenda europea.
Nel secondo semestre dell’anno ci si attende tra l’altro una ripresa dell’economia…
Le nuove regole sul lavoro possono appunto stimolare la volontà di molti imprenditori di cogliere nuove opportunità e di farlo anche in termini di maggiore occupazione.
Il governo sostiene a tal proposito che una maggior flessibilità in uscita risponda all’obiettivo di incentivare le aziende nella creazione di nuovi posti di lavoro.
Si, anche quando parliamo di licenziamenti, l’obiettivo vero è aumentare la propensione ad assumere, garantire certezze al datore di lavoro nell’ipotesi di rottura delle ragioni di un rapporto di lavoro, in modo tale che il datore di lavoro sia incoraggiato ad assumere, non abbia paura del fattore di lavoro come ricorrentemente è accaduto nel Paese col più grande partito comunista dell’Occidente. Non è un caso che ci sia stato sempre, cronicamente, in tutto il secondo dopoguerra, un forte rattrappimento del fattore lavoro, un basso coefficiente di occupazione in rapporto alla crescita economica.
Le precedenti riforme hanno appunto cercato di intervenire su queste rigidità…
Solo grazie alla legge Treu e alla legge Biagi, che sono le riforme che hanno liberato e ridotto queste rigidità, si è avuta un’impennata dei posti di lavoro. Si pensi che solo dalla legge Biagi (2003) alla crisi sono stati 1,6 milioni i nuovi posti di lavoro, e con la legge Treu (1997) sono stati 1 milione. In buona sostanza, le due leggi nel segno di Marco Biagi che si caratterizzano per l’attenuazione delle rigidità, hanno prodotto 2,6 milioni di posti di lavoro, in larga parte a tempo indeterminato.
In questo confronto con le parti sociali, il governo ha fatto tutto quello che poteva fare soprattutto nei confronti della Cgil?
Secondo me ha fatto anche fin troppo. Alcune concessioni alle tesi della Cgil avrebbero dovuto perlomeno essere accompagnate dal consenso della Cgil. Ci sono alcune concessioni a loro tesi esclusive. Per come io conosco Cisl e Uil, molte delle rigidità in entrata del rapporto di lavoro non sono mai state da loro condivise, mentre erano richiesta esclusiva della Cgil.
Qualche mese fa lei ha richiamato l’attenzione al pericolo del terrorismo. Come vede oggi questa rottura?
La dialettica e la diversità di opinioni sono il sale della democrazia. L’importante è non riprodurre un linguaggio aggressivo che in passato c’è stato, rispettare sempre le tesi dell’altro e sapere che ciascuno vuole il bene comune quando presenta le proprie proposte. In passato ci sono stati linguaggi e comportamenti che non hanno favorito un clima sereno nella politica. Io mi auguro, però, ora più di tutto, che questa riforma sia vera, nel senso che sia effettivamente funzionale alla propensione ad intraprendere. Se mantiene nel sistema datoriale la convinzione che addirittura si aggiungono o si lasciano modalità che spaventano l’accensione del nuovo rapporto di lavoro, non abbiamo raggiunto il nostro scopo.
Ieri con l’Onorevole Roberto Maroni ha scritto una lettera aperta al direttore del Corriere della Sera: la buona politica che auspicate, in quale misura è presente nel nostro Paese?
La regolazione del lavoro è un banco di prova importante per verificare se c’è la buona politica perché questa è a misura della persona, non è viziata da ideologie che comprimono la persona in una classe, in una razza, e la confondono e la collocano in termini subalterni ai propri diversi primati. Il primato è della persona, bisogna davvero mettere al centro la persona nel suo innato bisogno di esprimersi attraverso il lavoro, di concorrere alla comunità attraverso il lavoro, di esprimersi nella famiglia, nell’impresa, nella comunità familiare e in quella del territorio prima e nazionale dopo. E quindi bisogna accingersi a riformare il lavoro in questi termini, senza ostentare trofei ideologici. La buona politica deve essere semplice, perché la persona è semplice nei suoi desideri e nei suoi bisogni.
Nel rapporto comunità-territorio, il lavoro non è forse quel pretesto utile per respingere un po’ di frammentazione a livello locale?
Il territorio deve farsi comunità per includere, per soccorrere la persona quando è costretta a transitare da un posto di lavoro all’altro o dalla scuola al lavoro. Per farsi comunità, il territorio deve favorire l’integrazione degli attori pubblici e di quelli privati, del privato sociale e degli attori collettivi. Il mercato del lavoro deve essere ancora infrastrutturato: ciò significa avere efficienti servizi pubblici – penso ai Centri per l’Impiego che raramente lo sono – ma occorre che davvero gli attori si pongano in rete tra di loro e che le parti sociali accettino di concorrere a governare il mercato del lavoro.
Può spiegarci meglio questo punto?
Penso a organismi bilaterali in sussidiarietà, organizzati e gestiti dalle maggiori organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori, per condividere insieme tra loro e con le istituzioni pubbliche le fatiche del collocamento e del ricollocamento, e per indirizzare la buona formazione che renda più occupabili le persone e non le faccia sentire sole, dando più sicurezza ai lavoratori in un mercato inesorabilmente mobile.
(Giuseppe Sabella)