Il Consiglio dei ministri di ieri si è concluso con l’approvazione “salvo intese” della riforma del mercato del lavoro e arriverà in Parlamento come disegno di legge. Il governo ha perciò scartato l’ipotesi del decreto legge e della legge delega, confermando tra l’altro il no al reintegro sui licenziamenti per motivi economici.
«Si comincia a ragionare», ha dichiarato il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, mentre secondo il coordinatore nazionale del Pdl, Ignazio La Russa si tratterebbe di «una decisione molto grave che può creare squilibri politici». Per comprendere le conseguenze e i risvolti politici di una decisione solo all’apparenza tecnica, IlSussidiario.net ha interpellato Giulio Salerno, Docente di Diritto pubblico all’Università di Macerata.



Professore, innanzitutto cosa si intende con l’espressione “salvo intese”?

Si tratta di una prassi che si è venuta affermando nell’approvazione delle deliberazioni del Consiglio dei Ministri quando, pur sussistendo una sufficiente condivisione sulle linee essenziali di un determinato provvedimento, quest’ultimo necessita di una più precisa definizione in alcuni specifici contenuti. In altre parole, nel cdm non sono stati sollevati ostacoli politicamente rilevanti da parte dei singoli componenti del collegio, o comunque le eventuali obiezioni che pure sono state sollevate, si considerano compiutamente superate. 
Non si deve dimenticare, poi, che, in base all’art. 87, comma 4, della Costituzione, la presentazione alle Camere di un atto di iniziativa legislativa del Governo, è subordinata all’autorizzazione del Capo dello Stato. Questa attribuzione presidenziale ha acquistato nel corso del tempo un rilievo più sostanziale di quanto inizialmente considerato. Anzi il rilievo di tale potere tende ad accentuarsi là dove il circuito fiduciario Governo-Parlamento appaia più debole o sfilacciato.



Prima di parlare della scelta del ddl, per quale motivo secondo lei è stata scartata l’ipotesi del decreto-legge?

È una strada che pone non pochi problemi sia dal punto di vista politico che da quello istituzionale. Questo Governo, come noto, nasce da una convergenza temporanea tra forze politiche che si erano presentate come soggetti contrapposti durante la campagna elettorale e che si sono fronteggiate duramente durante la prima parte della legislatura.  Tale convergenza, apertamente sostenuta dal Capo dello Stato, ha consentito di affrontare una fase di particolare gravità sia sul versante interno che su quello esterno, e si propone di perdurare sino allo scioglimento naturale della legislatura. Se questa è la prospettiva di medio periodo, è evidente che ciascuno dei tre soggetti che hanno dato luogo a tale patto, pretende che il governo si presenti come “non belligerante” rispetto a quelle posizioni che più li contraddistinguono nei confronti dei rispettivi elettorati. La presentazione di un decreto-legge implica, al contrario, la definizione di un ben preciso quadro normativo, che il Governo avrebbe notevoli difficoltà a modificare in sede di conversione parlamentare. 



Cosa intende dire?

Qualsiasi mutamento sostanziale implicherebbe la ricerca di un nuovo equilibrio tra le diverse soluzioni prospettabili, e dunque comporterebbe il rischio di accentuare il conflitto tra le componenti della maggioranza sino al punto di non ritorno, cioè alla crisi di governo. È evidente, inoltre, che la scelta del decreto-legge è decisamente condizionata dalla concorde volontà del Capo dello Stato.
 
Il Presidente della Repubblica quindi non deve aver voluto mettere a rischio la solidità dell’esecutivo.

Vede, la mancanza di una vera intesa tra tutti i soggetti interessati (forze politiche e sindacali) avrebbe esposto il Governo – e lo stesso Capo dello Stato – ad assumere una notevolissima responsabilità politica, senza avere una qualche certezza sulla successiva conversione da parte delle Assemblee parlamentari. Per di più, in un caso come questo sarebbe stato davvero impensabile ricorrere alla questione di fiducia.   

E perché non passare attraverso una legge-delega?

Questa ipotesi implica invece una sorta di rinvio temporale in ordine alla precisa determinazione della normativa. Infatti, con la legge di delegazione il Governo viene autorizzato ad adottare, entro un certo termine (che di solito è di qualche mese, se non di un anno o più), uno o più decreti legislativi – cioè atti che hanno la stessa forza della legge – su una determinata materia e all’interno di un predeterminato quadro di “principi e criteri direttivi” indicati nella stessa legge di delega. Questi ultimi, per quanto trattasi di una prassi deprecabile, possono essere anche definiti in modo assai generico. Tutto ciò implica che la delegazione si traduce nel posticipare ad un momento successivo la determinazione del contenuto prescrittivo, e soprattutto nell’attribuire tale potere normativo al Governo, sottraendo al Parlamento la corrispondente funzione legislativa, che viceversa normalmente spetta a quest’ultimo. Ciò potrebbe però comportare anche il rinvio sine diedel provvedimento finale.

Veniamo quindi al disegno di legge ordinario.

L’esecutivo in questo caso rimette al Parlamento la piena valutazione delle scelte inizialmente compiute dal Governo. In tal caso, la forza innovativa dell’atto governativo sarebbe per lo più simbolica. Essa forse potrebbe soddisfare qualche disattento osservatore internazionale, ma, come abbiamo visto in non pochi frangenti, i cosiddetti “mercati” hanno dimostrato di conoscere il nostro diritto costituzionale (e anche le relative prassi più o meno distorsive) meglio dell’opinione pubblica nazionale. 

Se questa scelta rappresenta quindi la strada maestra, quanto è alto però il rischio di un “vietnam parlamentare”, annunciato ad esempio dal leader dell’Idv, Antonio Di Pietro.

La scelta del disegno di legge di delegazione, così come quella dell’ordinario disegno di legge di iniziativa governativa, implicano la volontà di collocare la riforma del mercato del lavoro all’interno della normale agenda parlamentare. Dunque, si tratterà di avviare gli ordinari procedimenti di esame e di approvazione, procedimenti che di norma sono assai lunghi e defatiganti, e rispetto ai quali il Governo non dispone attualmente di strumenti regolamentari che possono consentire di accelerare in modo decisivo i lavori parlamentari. Spetterà sostanzialmente alle forze politiche che esprimono la maggioranza nel Parlamento, stabilire la tempistica del provvedimento. 
Insomma, è possibile prevedere che su un tema così delicato, considerate le divisioni all’interno della maggioranza e tenuto conto degli attuali regolamenti parlamentari, se un gruppo di una qualche consistenza – politica e quantitiva – si oppone con decisione, al Governo restano ben poche armi per difendere il proprio progetto legislativo.