«Non vorrei si pensasse che stiamo scrivendo il libro “Cuore”» ha ironizzato Massimo D’Alema, commentando la convergenza che si è registrata ieri nella Direzione nazionale del Partito Democratico sul tema della riforma del mercato del lavoro. La relazione del segretario, Pier Luigi Bersani, che chiedeva di “colmare le lacune” sull’articolo 18, è stata infatti sostenuta da tutti i big del Pd e votata all’unanimità.
«I democratici hanno ritrovato una sostanziale compattezza – spiega a IlSussidiario.net il direttore de l’Unità, Claudio Sardo –. Tutte le componenti del partito hanno giudicato lo “strappo” voluto da Monti un errore da correggere. Questo è il dato politico più importante che è emerso dalla giornata di ieri. D’altra parte, l’esclusione del reintegro tra le possibili sanzioni ai licenziamenti motivati con ragioni economiche infondate altererebbe profondamente i principi del nostro diritto del lavoro. E non si poteva certo immaginare che questa proposta non avrebbe incontrato il dissenso del Pd».



A questo punto Bersani può puntare con forza a una correzione in Parlamento sulla scia del modello tedesco?

Certamente, si tratterebbe comunque di un passaggio innovativo e riformista, sostenuto con un largo consenso sociale. Non capisco come mai il governo abbia preferito la strada della rottura del delicato equilibrio che si era registrato attorno a questa ipotesi, ma deve capire che l’esclusione del reintegro è assolutamente inaccettabile. Una lesione di questo tipo cambierebbe il senso della riforma e manderebbe un segnale molto negativo. Non si rilancia un Paese nella divisione.



Ci spieghi meglio.

Vede, anche se qualche editorialista inizia a teorizzarlo, la ragione istitutiva di questo governo non è la lotta al potere di veto. Tra l’altro, non si capisce se chi sostiene queste tesi, quando parla di “veto”, intende anche quello dei propri padroni o si riferisce soltanto a quello dei sindacati, indebito, ovviamente.
Vorrei ricordare poi che il risanamento del debito pubblico non iniziò con la vittoria di Craxi e della Dc nell’’85 sulla scala mobile, ma con il patto sociale voluto da Ciampi nel ’93. Al di là dei giudizi sulle singole decisioni non c’è infatti paragone tra gli effetti che procura una condivisione e quelli generati da una frattura. Chi sostiene il contrario esprime una concezione elitaria, oligarchica e liberista secondo la quale non deve esserci niente tra il singolo e il mercato e i corpi intermedi vanno spazzati via.



Ad ogni modo, lei si aspetta un “vietnam parlamentare”, come l’ha chiamato Antonio Di Pietro? Sacconi chiede di scongiurarlo con un incontro preventivo tra il premier e i partiti.

Con le amministrative alle porte, il rischio che la campagna elettorale travolga tutto, effettivamente, esiste. Rimango però ottimista. Una volta lasciate alle spalle le elezioni, si potrà verificare una convergenza sul modello di cui abbiamo parlato prima. È assolutamente ragionevole e riformatore, anche se potrebbe non bastare.
Siamo in un congiuntura negativa, se il Paese non inizia a crescere faremo sempre più fatica. Le imprese hanno bisogno di una mano, ciò che le limita non è tanto l’articolo 18, quanto il peso della burocrazia e delle troppe tasse. Lo ha riconosciuto con grande onestà anche il nuovo Presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi.

Ma il compromesso tedesco, secondo lei, potrebbe mettere d’accordo anche la Cgil?

Ai sindacati possiamo rimproverare il fatto di non essere riusciti a esprimere una posizione unitaria che avrebbe reso più difficile questa forzatura. 
Chi ha osservato con attenzione il comportamento della Cgil però non ha potuto non cogliere alcune aperture importanti. 

Come ad esempio?

Nell’ultimo documento del direttivo non era stato inserita nessuna formula nella quale si diceva che l’articolo 18 andava difeso così com’è. Susanna Camusso infatti non ha accettato l’emendamento della minoranza interna, che infatti si è astenuta e non ha permesso un voto unanime. Era un segnale importante. Anche se, ovviamente, chi cerca la divisione a tutti i costi può trovare tutti i pretesti che vuole. 
La verità è che da qualche tempo a sinistra circola una sciocchezza: quella secondo cui il governo dei tecnici rappresenti la Terra promessa della sinistra italiana. I fatti hanno ampiamente smentito questa teoria. A questo punto, se si sana questa ferita sul tema del lavoro si può rilanciare questo “patto tra diversi” per arrivare a fine legislatura. Dopodiché però, con la speranza di avere presto una nuova legge elettorale, bisognerà tornare presto alla politica. 

Secondo lei quindi l’ala montiana del Pd esce ridimensionata da questa vicenda?

Probabilmente l’”illusione” è nata a partire da una difficoltà oggettiva nel costruire un’alternativa credibile. L’alleanza con la sinistra radicale ha imposto un certo grado di immaturità. La speranza a mio avviso non andava però riposta nei tecnici, ma nella sinistra europea. Una politica economica europea diversa è davvero possibile? Lo vedremo a partire dalle elezioni in Francia e Germania. Dopodiché mi auguro che il Partito Democratico si possa aprire a un rapporto con le forze moderate. 
Spero proprio che i centristi non giochino alla Grande Coalizione per il dopo 2013. Farebbero un grave danno all’Italia, dimostrando che questo Paese non è in grado di tornare alla normalità e può avere soltanto governi d’emergenza…

(Carlo Melato)