Il giorno dopo l’avvertimento lanciato da Mario Monti in visita a Seul («non tiro a campare come Andreotti») si è svolto alla Camera, nell’ufficio di Silvio Berlusconi, un nuovo vertice Abc (Alfano, Bersani, Casini). Un incontro in assenza del premier, che non si è limitato ai tre segretari, ma che è stato allargato a quegli ambasciatori dei singoli partiti, come Violante e Quagliariello, che da tempo sono al lavoro sulle riforme costituzionali. «La riforma della Costituzione e la nuova legge elettorale verranno incardinate», hanno annunciato i partiti della maggioranza al termine della riunione, mettendo in agenda anche la riduzione del numero dei parlamentari. 
«La politica sembra aver preso atto del rischio di finire in un vicolo cieco – spiega a IlSussidiario.net Massimo Franco, editorialista del Corriere della Sera –. I tempi per portare a termine le riforme sono stretti: se non si imposta il lavoro prima di Pasqua, infatti, si rischia di non raccogliere nulla».



Al di là di questo, che significato ha avuto questo vertice secondo lei?

A mio avviso non è un caso che l’idea di un nuovo incontro tra i leader sia venuta a Casini. Sarebbe il primo a risentire di una frattura interna alla maggioranza trasversale che appoggia il governo e continua a essere il massimo teorico del superamento del bipolarismo, nonché il più grande sostenitore dell’esperienza Monti. Dal suo punto di vista la grande coalizione deve andare avanti: è un interesse per il Paese, ma anche per se stesso.
Per quanto riguarda la riforma della legge elettorale, il Pd sta spingendo molto, mentre il Pdl ha ancora il freno a mano tirato. Ma le resistenze sono molto più diffuse di quanto non appaia.



Al primo punto dell’agenda c’erano quindi le riforme o la stabilità del governo?

A mio avviso, da questo vertice avrebbero dovuto uscire innanzitutto maggiori garanzie da fornire a Monti, soprattutto in termini di tempo, sull’approvazione della riforma del mercato del lavoro. Hanno annunciato che ne parleranno in un’altra occasione, dato che oggi si sono dedicati alle riforme costituzionali.
Vedremo, la stabilità del governo non mi sembra comunque in discussione.
Il governo arriverà a fine legislatura, il problema riguarderà semmai la percentuale di riforme che riuscirà a realizzare. L’aspettativa probabilmente sta scendendo dal 90 per cento, al 70. Ma se anche così fosse non sarebbe un cattivo risultato.



La minaccia di fare un passo indietro che il premier ha voluto fare dall’Estremo Oriente, invece, come va letta?

A mio avviso la sua dichiarazione drammatizza il tema della riforma del mercato del lavoro e lascia intuire che il rischio che questo nodo non si risolva esiste. Non solo, lascia emergere una debolezza. Ed è quantomeno singolare che questo accada durante un viaggio all’estero nel quale bisognerebbe cercare di vendere al meglio l’immagine dell’Italia. 

Al suo ritorno quanto è alto il rischio di un “vietnam parlamentare” sulla riforma del lavoro?

Il pericolo c’è, dato che nessuno può prevedere l’umore dei partiti dopo il voto delle amministrative. È probabile che alcuni di questi escano molto indeboliti e potrebbero generarsi delle spinte centrifughe. Non solo, questa è una riforma di rottura, che porrà dei problemi seri a sinistra.  

Il Pd, durante la Direzione Nazionale, è riuscito a compattarsi. Un’unità solo di facciata?

Diciamo che il gruppo dirigente ha capito che non può permettersi una spaccatura su questo argomento. Il fatto però che il richiamo al Presidente della Repubblica, fatto da Bersani, sia rimasto senza applausi mi ha colpito e sorpreso.
Evidentemente l’identificazione con Monti fa pagare un prezzo anche al Quirinale e l’anima montiana interna al Partito Democratico è costretta a giocare in difesa. Con tutto ciò che ne consegue…