«Monti fa la Thatcher», scrive il Wall Street Journal, lodando la determinazione nei confronti dei sindacati mostrata dal premier italiano, in questi giorni impegnato in un “tour show” in Estremo Oriente. Una svolta quella sulla riforma del mercato del lavoro che, secondo il quotidiano Usa, «potrebbe risparmiare a Roma il destino recentemente toccato ad Atene».
«Direi che il paragone è francamente esagerato – dice Antonio Polito a IlSussidiario.net –. La stampa anglosassone del resto fa sempre così con l’Italia. Ieri Berlusconi non era Nerone e oggi Monti non è la Lady di Ferro. Forse la cosa che più li accomuna è l’acconciatura. Scherzi a parte, non sarebbe nemmeno da spiegare l’enorme differenza che la portata delle riforme di uno e dell’altro hanno avuto. Solo noi italiani, così spaventati dai cambiamenti, possiamo infatti scambiare le moderate forme di apertura introdotte da Monti con lo shock liberista della Thatcher. Un esempio? Da noi si discute sul fatto se sia possibile aumentare il numero delle farmacie. In Inghilterra chiunque abbia la laurea da farmacista può vendere i farmaci. Non solo, nel piano del governo Monti non c’è nessuna privatizzazione che fu una delle carte forti della Thatcher e che continuano ancora oggi. In questi giorni il governo inglese sta infatti vendendo l’ultimo gioiello della Corona, le Poste. Noi non solo non le vendiamo, ma addirittura trasformiamo la banca delle poste, Bancoposta, in una specie di superbanca che compra altre banche private e gli fa concorrenza».
Più appropriato allora il paragone con il Craxi dell’84?
Sicuramente il discorso del Wall Street Journal ruota attorno al tema del rapporto con i sindacati. Monti si è alzato dal tavolo, ha interrotto la negoziazione e non ha accettato il veto. In effetti in Italia tutto ciò è abbastanza rivoluzionario, anche se la Thatcher non c’entra nulla, dato che li scacciava con la forza dai cancelli delle fabbriche sull’onda della reazione popolare all’“inverno dello scontento” del ’79.
Il caso della scala mobile è certamente più centrato. Il governo di Craxi infatti sfidò il potere della Cgil e vinse. Non solo perché arrivò a un accordo separato e il Pci e la Cgil persero il loro referendum, ma anche perché oggi nessuno, nemmeno tra i sindacalisti, difenderebbe quelle posizioni.
Il premier da parte sua ha invece chiarito di non essere come Andreotti.
Lo ha fatto perché parte da tre punti di forza: ciò che dice è necessario al Paese, l’Italia ha ancora paura di finire come la Grecia e, non essendo candidato alle prossime elezioni, non deve mediare per ottenere consenso elettorale. Alla luce di questo può dire: se l’emergenza non giustifica più il nostro operato, ditecelo e ce ne andiamo. Mario Monti infatti non “tirerà a campare”. E ha lanciato questo messaggio proprio perché sa che nessuno avrà la forza di aprire una crisi.
Cosa intende dire?
Il vero rischio che corre Monti non è la sfiducia, ma la tattica del rinvio. Ed è quello che potrebbe succedere sulla riforma del lavoro. Il Pd vorrebbe cambiarla. Ma come, con i voti della Lega? Sarebbe un fatto politico molto rilevante. Non credo che i democratici possano permetterselo. Ecco perché la tentazione di tirare in lungo sarà molto forte, mentre quella di un voto anticipato non è credibile. Qualcuno inizia a scrivere, ma credo che si tratti di fesserie.
Se invece superasse lo scoglio della riforma del lavoro, quale dovrà essere secondo lei il prossimo obiettivo?
Il Presidente del Consiglio, prima che scada il suo mandato, dovrà mettere nel mirino l’attacco alla spesa pubblica improduttiva. Se non scende la pressione fiscale sulle imprese e sul lavoro, infatti, non c’è nessuna speranza di crescita. Bisogna riuscire a far costare meno il lavoro sia alle imprese che ai lavoratori. C’è ancora molto grasso da tagliare in questo ambito, anche se qualcuno se ne lamenterà molto.
Sul piano internazionale invece, deve solo proseguire nel percorso che ha tracciato.
A cosa si riferisce?
All’estero arrivano echi attutiti e generici del dibattito italiano, ma questa immagine rinnovata fa passare un giudizio: l’Italia si sta rimettendo in piedi. Stiamo tornando in Cina, Paese in cui la Germania esporta moltissimo e nel quale noi non abbiamo ancora iniziato a farlo. Penso che questo viaggio abbia la stessa importanza dell’incontro a New York con i sedici maggiori investitori finanziari del mondo. Il Wall Street Journal fa bene a notarlo, anche se sbaglia i paragoni…
(Carlo Melato)