Se si scorrono le notizie dei giornali, si ha la sensazione di assistere ad uno spettacolo di devastazione generalizzata. Nonostante il glorioso ricordo di Tangentopoli, la corruzione si è diffusa in modo molecolare nella vita del Paese e niente sembra accadere al di fuori dello schema turpe dello scambio di favori e di privilegi. È stupefacente come i nostri rappresentanti politici non sappiano nulla dell’uso dei fondi che ricevono dallo Stato e come di fronte all’emersione di clamorose reti di collusioni e favoreggiamenti illeciti, nonostante le continue denunce, non accada nulla che metta in discussione l’attuale assetto interno dei cosiddetti partiti. È altrettanto sorprendente come continuamente si leggano notizie sulla manipolazione dei concorsi universitari residui, sulle funeste pratiche di clientelismo baronale e come su altri campi della cultura si assista alla contestazione dell’obiettività delle giurie che assegnano i premi senza che vengano messi poi in discussione i criteri e i metodi seguiti dalle varie lobbies che manovrano le iniziative culturali del Paese.
Il Sole24Ore si fa promotore di un manifesto, sottoscritto da tutti coloro che sanno usare la penna biro, sulla necessità di scommettere sulla cultura e il patrimonio artistico del nostro Paese, mentre il Presidente della Repubblica manifesta con un lungo articolo la propria adesione a questo invito a fare della cultura una leva anche dello sviluppo economico. Peccato che poi andando in giro, come spesso mi capita, per le città di questo meraviglioso Paese debbo amaramente constatare come la cultura non sia neppure agli ultimi posti delle priorità che enti pubblici e soggetti privati segnano nelle loro agende. E poi quale sarebbe la cultura da difendere e chi lo dovrebbe stabilire, visto che il “popolo” è gloriosamente avviato verso l’analfabetismo? Quali sono le élites di questo Paese che si pongono il problema di trasmettere almeno il desiderio di verità a chi ascolta i loro discorsi o legge i loro articoli? Ciò che viene offerto come informazione produce solo confusione e disorientamento. I grandi giornali di informazione non sono più capaci di esprimere alcuna visione della realtà.
Voglio subito fare alcuni esempi: su Repubblica si legge un articolo sul “tecnottimismo” che assicurerà nei prossimi vent’anni la totale scomparsa della povertà e lunga vita a tutti gli abitanti del pianeta, mentre qualche giorno dopo leggo un articolo sugli scenari economici mondiali in cui si descrive il futuro a tinte fosche chiamando in causa anche il rallentamento dell’economia cinese e la debolezza della crescita americana rispetto ad un’eurozona che minaccia fallimenti da tutti i lati. Luciano Gallino, col suo solito acume analitico, spiega come questo modello produttivo è strutturalmente inadeguato a produrre occupazione stabile e che senza una vera e propria inversione di rotta la società europea è destinata economicamente ad una lenta agonia. Figurarsi il rilancio della cultura in un contesto di recessione dove aumentano inesorabilmente i disoccupati e dove il tenore di vita del ceto medio si riduce costantemente.
L’umore generale del Paese continua a scivolare lentamente verso un’apatia diffusa. L’unico tema che sembra dominare il dibattito pubblico è la discussione su questo famigerato art. 18 dello statuto dei lavoratori che oramai viene relegato al puro livello del dibattito simbolico, cioè senza alcun riferimento concreto alla vita reale dei lavoratori e dei cittadini. Così Massimo D’Alema, ospite di Fazio, ha commentato le diverse posizioni che sono emerse intorno al tema del licenziamento senza giusta causa. È veramente grave che un vecchio dirigente del Pci non colga l’implicazione che i simboli hanno sempre avuto nella vita pratica e che per i simboli intere generazioni si sono mobilitate e sono persino andate a combattere sui fronti dell’Europa lacerata. Ma anche questo atteggiamento di disincantato realismo, che sembra connotare la fase attuale di una parte della dirigenza della sinistra, appartiene a questo diffuso disarmo della politica di fronte alle questioni che continuano ad infiammare quel che resta dell’area politicizzata del nostro Paese.
Ascoltare la Fornero che, difendendo la riforma del governo, continua a ripetere con aria professorale che loro, i tecnici, sono chiamati a fare quello che la politica non è capace più neppure di gestire, dovrebbe produrre nell’animo di tutti quelli che hanno vissuto un’esperienza politica un grande senso di tristezza. Tutti gli opinionisti hanno lodato la formazione del governo Monti come il necessario riconoscimento dell’impotenza della politica, e tutti i commentatori politici continuano a prospettare un prolungamento dell’esperienza del governo dei “tecnici”.
Pur concordando con Eugenio Scalfari che in realtà si tratta di un governo politico, voglio evidenziare il fatto che sono gli stessi ministri e sottosegretari a sottolineare nelle varie occasioni di dibattito pubblico la loro esclusiva competenza specialistica capace di risolvere problemi che i politici non possono affrontare a causa della pressione degli interessi. I “tecnici” sarebbero i garanti dell’interesse generale del Paese e il Presidente della Repubblica, Napolitano, li conforta giornalmente con le proprie esternazioni assicurando la loro funzione di arbitratori neutrali. Vorrei chiedere anche a Giorgio Napolitano, che conosco da molti decenni, perché mai la difesa del lavoro, la richiesta di occupazione e stabilità per i giovani non costituisca l’interesse generale. Una volta il lavoro, la sua dignità e la sua tutela erano il centro della vita politica nazionale e i padri fondatori della Costituzione hanno voluto fondare proprio sul lavoro la legittimazione a governare il Paese. Ciò che la discussione attuale non mette appunto in evidenza è che le riforme proposte dal governo non riguardano soltanto gli aspetti tecnici dell’articolo 18 ma più in generale il ruolo che il mondo del lavoro può avere nella vita democratica di questo Paese. Ho provato molta irritazione nel sentire affermare che questa riforma serve a dimostrare ai “mercati” che il sindacato non ha più un potere di veto sulle decisioni del governo, e che il governo può prendere decisioni senza preoccuparsi di ottenere il consenso dei rappresentanti dei lavoratori. Questo mi sembra il vero punto della svolta che il governo Monti sta attuando nel sistema politico del nostro Paese.
Ed è proprio su questo punto che si registrano i maggiori consensi delle culture neoliberiste che attribuiscono solo al mercato il potere di normare la vita delle popolazioni dei vecchi stati nazionali.
Io non so se ridere o piangere quando sento rappresentanti del governo rispondere alle obiezioni provenienti dal mondo del lavoro che le politiche che si stanno attuando vengono chieste dall’Europa e dai mercati. Non riesco a capire infatti che cosa rappresentano l’Europa e i mercati di fronte alla tragedia di milioni di uomini che vengono costretti a vivere l’esperienza della povertà come in Grecia. Di quale Europa si parla per giudicare legittimamente il popolo greco come una massa di parassiti e fannulloni ai quali però si chiede di partecipare col 7 per cento del proprio Pil all’acquisto di armamenti prodotti in Germania? E quali sono i mercati che pretendono di imporci regole in nome della efficienza economica quando poi abbiamo ascoltato voci autorevoli denunciare le truffe e gli inganni dei fondi sopranazionali di gestione della finanza globale e abbiamo letto testimonianze di ex dirigenti della Goldman Sachs (riportate ad esempio su Repubblica) che denunciano lo spirito di rapina delle grandi organizzazioni finanziarie sopranazionali?
Non c’è dubbio che l’eccessivo indebitamento pubblico ha portato il nostro e gli altri Paesi europei in condizioni di difficoltà rispetto al fabbisogno di credito per poter sostenere lo sviluppo, ma bisogna anche riconoscere che i creditori sono diventati usurai che hanno portato il costo dell’indebitamento oltre ogni limite per sfruttare appunto le difficoltà degli stati nazionali. In varie occasioni mi è accaduto di ascoltare che i finanziamenti concessi alla Grecia sono stati utilizzati in gran parte per soddisfare gli interessi del sistema bancario e dei creditori più forti, mentre nulla è stato utilizzato per ridare fiato all’economia reale. Anche nel resto d’Europa assistiamo a questo strano fenomeno del finanziamento della banca europea al tasso dell’1,5 alle banche nazionali, utilizzato per acquistare titoli di Stato che producono interessi ben più alti e vantaggiosi.
Tutto sembra, almeno ad un profano come me, risolversi in una grande partita di giro tra istituzioni bancarie e finanziarie che operano a livelli diversi ma convergono verso lo stesso risultato di mantenere elevatissimo il tasso di interesse verso i debitori di ogni specie.
Sotto questo profilo il governo Monti può ascrivere come un suo grande successo il definitivo tramonto della politica. Aiutato in questa disfatta storica dell’ideale democratico dalla complicità degli stessi partiti che attualmente dichiarano di sostenerne l’esistenza a causa dell’emergenza. Una politica che non sa governare l’emergenza è infatti di per sé fallimentare, ma lo è ancora di più se non solo accetta il disprezzo con cui molti ministri tecnici trattano gli esponenti dei partiti ma anche appare dilaniata dai conflitti interni. La questione del destino del lavoro dipendente non è una questione di coscienza e non si può tollerare, come accade nel Pd, che qualcuno pensi e dichiari il contrario di quello che il segretario dice ufficialmente. Proprio per questa situazione così confusa e torbida ritengo che tutti gli organi di stampa, gli intellettuali e le forze vitali della società debbano mobilitarsi affinché cessi al più presto questa assoluta anomalia.
Le prossime elezioni amministrative sono un’occasione perché in tutte le realtà locali si sviluppino vere e proprie conferenze pubbliche per verificare le scelte democratiche dei candidati e i motivi delle diverse aggregazioni. Sebbene le elezioni amministrative abbiano apparentemente un significato più legato alla gestione del potere locale che alla politica nazionale, ritengo che questa volta occorra sovraccaricarne il significato, perché il carattere ravvicinato tra istituzioni locali e popolazioni può consentire innovazioni reali che non possono essere disegnate nei vertici di partito e nelle sedi romane.