È tempo di nuove polemiche tra i partiti e il presidente del Consiglio, ancora impegnato nel suo viaggio in Estremo Oriente. «Il governo gode di un forte consenso nei sondaggi d’opinione, i partiti no», ha dichiarato ieri da Tokyo il premier, scatenando la reazione delle forze politiche. Una «caduta di stile», secondo Futuro e Libertà, mentre il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha evocato il rischio che a «prendere i cazzotti» alla fine siano sia i politici che i tecnici.
Al centro del dibattito resta comunque la riforma della legge elettorale annunciata dai partiti di maggioranza. «I contorni di questa nuova legge mi sembrano ancora incerti – spiega Giulio Sapelli a IlSussidiario.net –. Le reazioni negative della Lega Nord, che probabilmente teme un inciucio, mi sembrano però interessanti. Pur non condividendo le sue posizioni, devo infatti ammettere che guardo con attenzione a questo soggetto politico che, nel suo distanziarsi da un’adesione piatta e conformistica al governo Monti, a mio avviso non ha lasciato emergere soltanto motivazioni populistiche, ma anche propositi di libertà».



Innanzitutto, come giudica il possibile abbandono del maggioritario?

Da vecchio proporzionalista sono favorevole, anche se devo dire che non credo all’identificazione che è stata fatta tra voto di preferenza e clientelismo. Anzi, credo che il voto maggioritario senza preferenze, imposto da gruppi oligarchici all’interno dei partiti, sia stato proprio il trionfo delle clientele.
In questo disegno però non si parla di preferenze, ma, ancora una volta, di premio di maggioranza. Eppure abbiamo visto in questi anni che dove non c’è un’unità organica nei partiti, questi si frantumano. Evidentemente qualche colpa ce l’hanno anche i politologi.



Cosa intende dire?

Non studiando più il potere, si sono concentrati sui sistemi elettorali, fallendo nell’indicare una via per la stabilità dei sistemi politici. Per trent’anni infatti ci hanno decantato la superiorità del maggioritario rispetto al proporzionale, ma era evidente che fosse incompatibile con l’Italia delle mille città e delle mille idee e che fosse invece funzionale all’iperstatalizzazione dell’economia e della società, contro ogni principio di sussidiarietà.
Il fallimento del pensiero politologico-elettoralistico è stato quindi preclaro. Per questo spero che i partiti la smettano con i premi di maggioranza e facciano qualcosa di molto semplice: un sistema tedesco puro, un proporzionale con le preferenze e uno sbarramento moderato, intorno al 2 o 3 per cento.



Il proporzionale corretto di cui si sta parlando quindi non la convince?

In una situazione di crisi economica come questa, che a mio avviso durerà ancora parecchi anni e che non vedrà mobilitazioni collettive, ma convulsioni sociali, piccole rivolte e atti di ribellione, servirebbero meccanismi capaci di includere nelle procedure parlamentari e nella democrazia le masse, non di escluderle.
Ad oggi sia la destra sociale che la sinistra estrema non sono rappresentate in Parlamento e non credo che questo sfavorisca gli estremisti. 

Secondo lei comunque possiamo dire che il bipolarismo è finito?

Certo, anche se forse in Italia non è mai iniziato. Come ha già spiegato Giorgio Galli in un suo famoso libro, il bipolarismo funziona quando i due partiti maggiori riescono a raccogliere insieme l’80 per cento. 
In Italia, in questi anni, sommando i voti delle due forze più grandi si arrivava a mala pena al 50 per cento. È stato un bipolarismo, ma di blocco, di coalizione. Un’invenzione sudamericana.  

C’è però chi dice che con il nuovo sistema si rischia ingovernabilità e frammentazione.

Vede, questo è il timore di chi pensa che con i meccanismi elettorali si possa comporre la società e si possa ridurre la frammentazione. I sistemi elettorali però non la riducono, al massimo la nascondono. Se la frammentazione c’è, bisogna essere in grado di governare facendoci i conti.
Non a caso Lula ha governato il Brasile con un partito del 25 per cento e una coalizione di 15 partiti. Se si ha paura di questo significa che manca la forza aggregante. Ma allora è meglio cambiare mestiere e lasciar perdere la politica. 

C’è un’altra critica, che viene soprattutto dai nostalgici di Berlusconi, secondo la quale in questo modo andranno perse alcune novità introdotte dalla cosiddetta Seconda Repubblica: l’obbligo di dire prima del voto quali saranno le coalizioni, ad esempio. 

Stiamo parlando però di illusioni, nate in un periodo in cui una parte d’Italia ha creduto che un uomo forte al comando avrebbe potuto restituire alla politica quello spazio che gli era stato tolto dallo strapotere che la magistratura aveva, e che ancora ha. Ma la frammentazione non si vince nemmeno con la leadership e con i partiti leaderistici.
D’altra parte il governo Berlusconi è stato esautorato con un colpo di stato sudamericano annacquato, fatto con le armi eleganti dell’estremizzazione del pericolo della crisi. Le immagini di Atene in fiamme hanno fatto cadere il governo, anche se era di impostazione leaderistica. 
A mio avviso, comunque, bisogna riabituarsi all’idea che la politica sia una comunità di destino e non sia fatta dagli “uomini della Provvidenza”. 

Al di là dei giudizi di merito, da questa riforma, per ora solo annunciata, lei vede l’inizio di una ripresa della politica? O ha ragione il premier a citare i suoi sondaggi. 

Francamente la ripresa dei partiti non la vedo, noto piuttosto un grave crollo di legittimazione del governo dei tecnici. Basta vedere la riforma del lavoro per accorgersene. Non c’è alcuna perizia tecnica, ma una grande confusione che potrebbe generare una miriade di ricorsi. 
Non solo, al di là delle infelici battute su Giulio Andreotti, c’è un equivoco di fondo: la politica è l’arte della mediazione, non della decisione. I politici dovrebbero impararlo, visto che i tecnici non lo sanno. C’è comunque da augurarsi una ripresa della politica, al più presto. 

Per quale motivo?

Il solo fatto che un governo di tecnici abbia pensato che il sistema della piccole e medie imprese potesse sostenere il peso di una nuova assicurazione sociale, quando i nostri piccoli imprenditori lottano ogni giorno per rimanere in vita, dimostra che chi ci governa non conosce questo Paese. Lo stesso si potrebbe dire per quanto hanno deciso di fare alle speranze di chi era nato nel 1952. 
Probabilmente questi professori non vivono in Italia, ma nelle grandi università nordamericane, segno massimo di provincialismo. Speriamo che la politica torni al proprio posto. Le vacanze sono finite…

(Carlo Melato)