Quando, lo scorso dicembre, da poco detronizzato da Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi decise di intervenire al congresso del Ppe mi capitò di dire con una battuta – che so esser stata riferita anche al diretto interessato – che con questa mossa del Cavaliere Angelino Alfano era stato “cesizzato”, cioè ridotto al rango di segretario di mera rappresentanza. Solo che il generoso segretario dell’Udc sa benissimo di dover rappresentare l’umile servitore nella vigna di Pierferdy, mentre al giovane Angelino era stata a più riprese prospettata la successione a Palazzo Chigi (a patto di vincere le elezioni, s’intende) e nel partito.
I fatti, come spesso accade, si sono presto incaricati di sopravanzare la fantasia e le battute, ed ecco ora la storia del famoso “quid” che mancherebbe al segretario agli occhi del leader, intenzionato evidentemente a riprendersi la scena, Come in effetti ha fatto, salvo – va senza dire – accusare i giornalisti di inventare, perché invece la verità sarebbe che «Angelino se li mangia tutti i segretari», come ha sostenuto il Cavaliere. Il quale però – a ben vedere – ha evitato di spiegare se Alfano sia in grado di mangiarsi tutti anche nel suo partito, e il dubbio che Berlusconi non voglia ancora farsi mangiare da lui un po’ resta. Quel che però è sicuro è che Angelino non l’ha presa bene e ha creduto più al retroscena del quid che alla sua smentita.
Il risultato della contesa nel Pdl si è subito scaricato sull’ABeCedario della maggioranza di governo che ha perso d’un colpo la prima lettera, con un Alfano alla ricerca di nuova legittimazione nel suo partito che sceglie di disertare un vertice con B e C (Bersani e Casini) nel quale si sarebbe trattato anche di Rai e Giustizia, e forse anche di frequenze televisive da concedere non più a gratis. Tutti temi tabù per il Pdl. Alfano ha quindi provato a prendersela con gli altri due leader, rei di aver attaccato bottone con la Severino a sua insaputa, ma nessuno ci toglie dalla testa che il suo vero timore era quello rischiare la delegittimazione ove mai avesse accettato di andare a trattare senza l’autorizzazione del capo.
Ed ecco il guaio. Il ministro della Cooperazione – che forse, è vero, farebbe bene a dosare sul modello Passera le sue uscite: un’esternazione ogni dieci provvedimenti assunti, e non viceversa – commette l’errore di lasciarsi intercettare mentre dice quello che il 90 per cento degli italiani pensa, ma un ministro tecnico non può dire. E che cioè questa politica – non la politica in generale come capziosamente si è voluto tradurre – fa schifo e verrà spazzata via. E va bé, lo ha detto. Poi si è anche scusato. E allora, che vogliamo fare? Vogliamo mandare un avvertimento a Mario Monti colpendo Andrea Riccardi? Vogliamo punirlo, questo governo, per aver riportato lo spread sotto i 300 punti, cioè a livelli quasi fisiologici, dopo che eravamo vicini al fallimento con la magra consolazione di non aver messo le mani nelle tasche degli italiani?
Cosicché il Parlamento, anzi quella parte del Parlamento che non ha avuto remore a votare che Ruby ragazza era la nipote di Mubarak, riscopre improvvisamente l’orgoglio della categoria e si mette a raccogliere firme contro il denigratore Riccardi. Poi però il capo della rivolta, il Guardasigilli più breve di tutti i tempi, Nitto Palma, rimette la questione ai capigruppo Gasparri e Quagliariello e al leader Berlusconi, relegando ancora una volta a un ruolo decorativo il povero Alfano, non citato.
Monti per canto suo alle prese con tre grane estere una più delicata dell’altra (Daniela Urru, i marò arrestati in India e l’ingegnere rapito in Nigeria, la terza delle quali già conclusasi purtroppo e drammaticamente) non ha avuto modo di concentrarsi appieno sulla vicenda limitandosi ad auspicare che non cresca, ora, lo spread fra i partiti.
Poi anche la Lega ci ha messo del suo. Tralasciamo le parole in libertà di Bossi, ma anche il moderato Maroni si e messo a dire che se c’erano loro, con Frattini, non avrebbero fatto la figura dei «peracottari» con l’India. Dimenticando però il caso Battisti, la visita di Berlusconi in Brasile con annessa allegra festicciola di Walter Lavitola e il ricevimento di Lula all’ambasciata brasiliana con il premier accompagnato dai gioielli brasiliani del Milan, altro che mostrare i muscoli come oggi non farebbe fare Monti.
Ora però Alfano – ma ha pieno titolo per dirlo? – dice che con la Lega è finita. Trascurando anche qui di dire che è stato un errore allearsi con Bossi a prezzo di buttare a mare Casini. Non perché Casini sia più simpatico, ma perché – semplicemente – milita nello stesso Ppe al quale ora Alfano tardivamente guarda per poter ripartire per un nuovo partito. Certo, non c’è dubbio che lì si andrà a finire, ma ho l’impressione che un progetto di Ppe italiano sia ancora lontano.
Casini può lucrare su alcune intuizioni lungimiranti, ma intanto ha un partito debole alle spalle e un terzo polo con mille incognite ancora tutto da carburare, e sa che andare a fare il donatore di sangue a due partiti in piena crisi come il Pd e il Pdl decreterebbe la sua fine. Allora niente di meglio che proporre un Monti bis, dall’anno prossimo, dopo un voto che potrebbe concludersi con un nulla di fatto, con tre poli, nessuno dei quali autosufficiente, e costretti a mettersi d’accordo in Parlamento, come già accade ora.
Converrebbe a tutti. Fare un po’ di autocritica e di penitenza, rimettendo tutti insieme in carreggiata l’Italia. Prima di riprendere la solfa di una politica che fa schifo. Sì, fa schifo una politica che pensa solo a litigare per interessi di bottega e non fa le riforme che servono al Paese a mettersi in salvo.