La guerra intestina che non si placa, i troppi nervosismi, le minacce grossolane di Bossi e Maroni (“Boni e la Lega non si toccano”), la denuncia di fantasmi ossessivi in stile Ghedini (“la magistratura vuole farci fuori”). E poi l’esplodere della questione morale, il fantasma delle mazzette in casa, nella vetrina lombarda, e i rimborsi elettorali investiti in Tanzania dal tesoriere Francesco Belsito. Passando per le iniziative giudiziarie nei confronti di alcuni amministratori locali, e non solo. Fine dell’eccezione leghista, il partito nuovo dalle mani pulite?
Da qualche settimana il cinico tatticismo del Carroccio – stiamo all’opposizione del governo Monti, ci ri-ossigeniamo e rubiamo i voti in uscita di un Pdl in caduta libera costretto ad appoggiare un esecutivo che tartassa l’elettorato del Nord -, sembra girare a vuoto. Più passano i giorni e più l’aventino leghista, peraltro macchiato dagli scandali, assume i contorni di un clamoroso autogol. Gli stessi sondaggi che circolano danno il partitone verde in forte crisi di consensi, come se il divorzio dagli alleati storici su cui si sono costruite carriere politiche e rendite di posizione, finisse per ricacciarlo in una sorta di letale horror vacui. Strana nemesi. “Il partito ha un serio problema di iniziativa politica: non si vede una proposta che sia una, tolta la sollevazione contro l’abolizione delle tesorerie comunali, certo non un tema su cui mobilitare le masse…”, ammettono da via Bellerio.
In effetti quando si governano due grandi regioni (Piemonte e Veneto), quasi 400 comuni e una dozzina di province, sbraitare contro Monti può servire a rifarsi una verginità e ricompattarsi, ma non risolve la vera urgenza: traghettare il sistema produttivo, che nel Lombardoveneto rappresenta il cuore dell’elettorato padano, fuori della crisi.
Il richiamo della foresta, gli spadoni, le rivendicazioni neo-nazionalistiche o xenofobe, la gazzarra e la demagogia in Parlamento, tutti slogan forse utili nella fase giovanile della Lega, oggi suonano stucchevoli e datati.
Gli elettori del Nord vogliono risposte concrete, veloci sui ritardi di pagamento, i tagli agli enti locali, le banche che non danno più mutui e fidi, le crisi industriali, la disoccupazione. Il focus è l’agenda economica e la crescita, non la secessione. E se davvero il leader in pectore Maroni punta al modello bavarese la sfida è conservare e, possibilmente, estendere il consenso tra quell’elettorato nordista intrappolato nella recessione lunga, dandogli una prospettiva di ripartenza, piuttosto che difendere una riserva indiana di voti e posizioni.
Se si gira sul territorio tutto questo è palese. I tanti amministratori in trincea avvertono forte e chiaro il rischio scivolamento e l’arrocco identitario che farebbe perdere un bel pezzo di voto di opinione raccolto nel triennio magico 2008-2010. Ma i vertici non sembrano percepirlo.
Nel frattempo a maggio si vota. Andranno al rinnovo le amministrazione provinciali di Como, Vicenza e Belluno e centri importanti (per la Lega) come Cantù, Cittadella, Crema, Feltre, Lissone, Meda, Conegliano, Thiene e soprattutto i due fortini di Monza e Verona, dove resta aperta la vicenda di Flavio Tosi e della sua lista che il sindaco uscente vuol presentare a tutti i costi, ma Bossi vieta. Qui si capirà almeno parzialmente quanto pesa in termini di consensi il male oscuro leghista, quanta disaffezione ci sia realmente e quanto incidono scandali, vuoto di politica e la guerra mai risolta per la leadership interna tra “barbari sognanti” maroniani e bossiani ortodossi.
Subito dopo ci sarà l’appuntamento forse più atteso: i congressi regionali. Il veneto Gian Paolo Gobbo, il piemontese Roberto Cota e il lombardo Giancarlo Giorgetti sono segretari da 10 anni e oltre. Ci sarà bisogno di aria fresca e nuove idee per ripartire, se il Carroccio non vuole ridursi a pura testimonianza folcloristica. Di sicuro, il mantra “Roma ladrona” non basta più. Soprattutto se la gente comincia a pensare che sotto quell’etichetta rientrano pienamente anche tuoi esponenti…