«Le pulizie di primavera sono quasi finite. Ora servono idee e azioni: torniamo a fare politica». Roberto Maroni parla ormai da nuovo leader della Lega Nord, al termine di una delle settimane più drammatiche per il Carroccio, che ha visto le “inaudite” dimissioni di Umberto Bossi da segretario federale della Lega, il passo indietro del figlio Renzo e l’espulsione di Rosi Mauro, votata all’unanimità dal Consiglio Federale di via Bellerio. Ma qual è il nuovo progetto politico dell’ex ministro dell’Interno? La sua sarà una Lega di lotta o di governo? Ne abbiamo discusso con il professor Stefano Bruno Galli, politologo, docente di storia delle dottrine politiche all’Università statale di Milano, presidente di Eupolis Lombardia, e grande conoscitore del Carroccio.



Professore, secondo alcuni commentatori, le vicende che hanno sconvolto il partito di Umberto Bossi sembrano avere origine da un’involuzione culturale del progetto leghista. Lei è d’accordo con chi sostiene questa tesi? 

In parte sì. Direi che ci troviamo davanti alle tipiche degenerazioni a cui è soggetto il sistema politico italiano. Ciò che mi sembra assai poco italiano è, invece, la reazione che il partito ha saputo mettere in campo. In pochi giorni abbiamo infatti visto le dimissioni del segretario federale nonchè fondatore del movimento, quelle del figlio dal consiglio regionale della Lombardia e l’espulsione di una dirigente di rilievo.
Detto questo, l’involuzione c’è stata, ma sarebbe fuorviante spiegarla con la “romanizzazione” del partito e con il tradimento delle idee da cui nacque. Credo che i motivi siano da cercare altrove.



Cosa intende dire?

Per capire ciò che è avvenuto dobbiamo fare un passo indietro. All’inizio dell’avventura politica della Lega Nord, Umberto Bossi seguì l’intuizione del professor Gianfranco Miglio, che gli consigliò di strutturare in senso fortemente verticista il partito, ancorandolo alla sua leadership carismatica.
Un motivo, d’altra parte, c’era: la Lega Nord nasceva come l’unione di tante leghe che andavano tenute insieme, nonostante gli inevitabili attriti. Non a caso è viva ancora oggi la rivalità tra lombardi e veneti.

Per quale motivo?

La Lega Lombarda è stata la prima a volere l’unità di tutte le leghe del Settentrione, ma la Liga Veneta aveva un suo primato. Tra gli autonomisti era infatti la prima ad avere guadagnato un posto in Parlamento, prima ancora di Umberto Bossi e Giuseppe Leoni, e si considerava la “madre” di tutte le leghe. Sono contrasti che hanno resistito nel tempo, anche se è sempre prevalsa la sintesi. Tornando al carisma di Bossi, è evidente che ha saputo tenere a lungo, fino al 2004, quando la malattia ha causato un comprensibile, ma innegabile appannamento della sua leadership.

Anche secondo lei, quindi, i problemi sono iniziati in quel momento?  



Non ci sono molti dubbi: la leadership è stata in breve tempo sostituita da un sistema di potere alternativo, che ha portato alle degenerazioni di cui oggi si possono leggere gli effetti sui giornali.  
Da un lato quindi l’involuzione di cui parlavamo all’inizio ha interessato, per ragioni oggettive, il leader. Ciò non toglie che è giunto il momento di fare un serio bilancio del progetto di riforma delle istituzioni in senso federale.

A questo proposito, che risultati ha ottenuto la “Lega di governo”?   

L’idea di partenza aveva una sua logica, ma i risultati non sono stati soddisfacenti. La rigenerazione delle istituzioni dal loro interno infatti non è avvenuta. D’altronde, la storia ci insegna che non è affatto semplice. Luigi XVI, che ci aveva provato convocando gli Stati Generali nel 1789, ma venne poi decapitato. La resistenza della burocrazia e la difficoltà nell’incidere negli interessi radicati e diffusi a volte sembrano invincibili, anche se bisogna riconoscere al Carroccio il merito di aver imposto a tutto il sistema politico la discussione sul federalismo e sui meccanismi di responsabilità a cui deve essere vincolato chi ha il potere. 

Questo significa che quella di Maroni tornerà a essere una “Lega di lotta”? 

Toccherà a lui, a tempo debito, esporre il suo programma politico, al di là dei problemi che stanno accompagnando questa fase delicata. 
Un rilancio è sicuramente necessario. Il fatto poi che non si possano fare le riforme dall’interno non significa sognare la rivoluzione o promettere un irraggiungibile “sol dell’avvenir”, ma ripiegare sul territorio, arroccarsi nel fortino elettorale e riprendere in mano quella cambiale della gente del Nord che può permettere una nuova negoziazione con Roma. La questione settentrionale infatti è ancora apertissima.

Per fare questo pieno di voti, evitando il contraccolpo degli scandali, la Lega dovrà cambiare linguaggio? Ma, soprattutto, a che percentuali dovrà puntare per raggiungere il suo scopo?

A mio avviso l’obiettivo primario dovrebbe essere quello di diventare il primo partito in Lombardia, Veneto e anche in Piemonte. Dopodiché dovrà puntare a qualcosa di più ambizioso: diventare maggioranza assoluta, andando oltre il 50% in questo territorio. 
Per andare oltre lo “zoccolo duro”, come ha detto lei, anche a livello comunicativo occorrerà certamente un aggiornamento. Tenga presente che se nella prima fase della Lega la questione settentrionale era sentita soprattutto in una fascia sub-alpina che va da Biella a Treviso, il baricentro negli anni si è abbassato. Oggi viaggia sui binari della Torino-Venezia e interessa quindi un elettorato culturalmente più elevato, la media impresa e il terziario. 

La Lega dovrà perciò tornare a intercettare i voti in libera uscita da Pd e Pdl, ma anche da altre forze politiche, che in questo momento di certo non mancano. Non sarà facile, ma chi dà la Lega per morta dimentica le tre ragioni profonde per le quali è politologicamente “immortale”.

E quali sarebbero?

Come le dicevo Bossi ebbe l’intuizione di capire che alla fine degli anni Settanta la questione settentrionale stava per esplodere, così come il debito pubblico. Il Nord si sentiva saccheggiato dal drenaggio fiscale per sostenere le politiche assistenziali per il Mezzogiorno che non hanno prodotto nessun risultato. I richiami che dall’Europa arrivavano a Roma venivano ignorati e si traducevano soltanto in un inasprimento della fiscalità.
Il fatto è che il tema oggi è attualissimo, anche grazie ai vincoli del patto di stabilità e alla tesoreria unica creata dal governo Monti. Lo confermano, purtroppo, il pedaggio che le piccole imprese stanno pagando alla crisi economica e i quotidiani suicidi degli imprenditori. Se la Lega riparte da qui e porta con se dieci milioni di settentrionali può cercare di far valere le sue ragioni politiche, ormai documentate da studiosi illustri e non legati al Carroccio. Basti pensare al “Sacco del Nord” di Luca Ricolfi, pubblicato qualche anno fa. 

E le altre due ragioni?

Vede, i partiti nascono sulle fratture: la Dc, ad esempio, ebbe origine da quella tra Stato e Chiesa, il Pci da quella tra capitale e lavoro, Forza Italia da quella tra la Prima e la Seconda Repubblica. A differenza di queste, la frattura tra Nord e Sud, su cui è nata la Lega, è ancora attuale, anzi, è strutturale dal 1861. 
Infine la terza: al di là delle ironie di sociologi e giornalisti poco avvezzi allo studio del pensiero politico, la Lega Nord ha un pantheon culturale di tutto rispetto a cui fare riferimento e dal quale ripartire. Lo stesso non si può dire degli altri partiti, politicamente più giovani, che compongono il panorama politico italiano. Il Pd, ad esempio, per nascere ha dovuto sbarazzarsi dei suoi padri nobili, mentre al Pdl non è riuscito l’aggancio a De Gasperi e a don Sturzo. Il Carroccio, invece, può vantare nomi di tutto rispetto: da Salvadori a Chanoux, a Denis de Rougemont e Guy Héraud, a Miglio. Senza dimenticare Carlo Cattaneo…

(Carlo Melato) 

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