«Appresso viè Genzano co’r pittoresco Arbano; su viette a divertì, Nannì, Nannì…». Così recita una nota canzone romanesca. Ma qui c’è poco da divertirsi. Appresso (dopo) Genzano – bel sito dei Castelli romani sede della famosa casa del tesoriere Lusi comprata con i soldi sottratti alla Margherita, non più esistente in natura, ma resuscitata solo per sottrarre a sua volta fondi al Pd – ecco Belsito, l’altro tesoriere, con i  suoi diamanti, ecco Renzo il Trota versione Bancomat, ecco l’ex ministro dell’Interno Maroni con la ramazza in mano a fare pulizia, ecco la casa di Calderoli sul Gianicolo con vista su Roma ladrona. Infine, è toccato a Silvio Berlusconi chiudere una settimana da brivido. A volte, per non infierire, basta dare per buone le tesi difensive di chi è sotto accusa. Diamo per buono allora quel che ha detto Rosi Mauro, e cioé che non può aver rubato una laurea visto che lei a scuola è stata sempre un’asina, e dunque mai e poi mai avrebbe potuto avere di queste aspirazioni, né lei né il suo bodyguard (non amante, assicura) co-autore con Enzo Iacchetti della nota compilation “Kooly noody”.



Insomma, per sua esplicita ammissione, la vice della seconda carica dello Stato è un’ignorante –come avevamo intuito dal modo compulsivo con cui decretava l’approvazione dei provvedimenti dal suo scranno di presidenza – e lo rivendica anche. Spazio alla difesa anche per Berlusconi che assicura ancora di aver agito pensando che quella era la nipote di Mubarak e che quelle serate piccanti di cui si parla altro non erano che «gare di burlesque». Affermazioni che potrebbero sembrare leggere, simpatiche, se non ci si mettesse quel volto accigliato, denotante apparente buona fede, a renderle drammatiche. Non scherzano, insomma, parlano seriamente.



E così la politica italiana dopo il guizzo scandito dalla percezione del baratro imminente e dalla “luna di miele” di Mario Monti torna a dare il peggio di sé, lasciando tutti noi in una situazione fastidiosissima: non siamo morti della malattia di cui siamo affetti, ma neppure sappiamo se e quando potremo guarire.
Anche un modello positivo come la Lombardia è in difficoltà, all’interno di questo teatrino. Ma non è solo la politica ad uscire maciullata da un ventennio orribile. Sarà un’ondata di pessimismo che ci prende, ma la fuffa, il genere burlesque, sembra aver preso il sopravvento in tutti i settori principali, nei gangli vitali della nostra società. Non vorrei finire a teorizzare che “sfigato” è bello, ma devo confessare una sensazione amara e sempre più radicata.



E cioè questa: è come se avendo smarrito, questo nostro Paese, un senso condiviso di bene comune, di costruzione paziente in luogo della millanteria, di serietà in luogo delle barzellette, di studio in luogo dell’improvvisazione, cresce l’impressione che nelle posizioni apicali intorno a noi ci siano finiti non i migliori, ma i campioni di questo genere teatrale piuttosto leggero che fino a ieri neanche sapevamo esistesse.

La racconto in un altro modo. A furia di frequentare, anche per ragioni di lavoro, sfrenati protagonisti della fuffa che riempie i titoli dei giornali e da qualche tempo anche le ultime diavolerie comunicative (i tweet dei social network) cresce la voglia di incontrare gente semplice, che non conta niente se non i pochi soldi a disposizione per sfamare i propri cari e che non bastano mai. Non fanno notizia, si perdono anche, beati loro, qualche puntata di questo quotidiano burlesque, ma per fortuna conservano la capacità, con la loro magnifica normalità, di scaldare il cuore. Gente semplice, il più delle volte timorata di Dio, ma certamente dal buon Dio prediletta.

Tornando per un istante alla politica c’è un’analisi ulteriore che andrebbe fatta sugli sprechi perpetrati dai partiti, sempre più nella bufera. Se si trattasse di bilanci accessibili e fosse possibile effettuare un raffronto temporale, sono certo che potremmo documentare come la vera differenza sui fondi di 20-30 anni fa consiste soprattutto sulla quota percentuale che di essi arriva effettivamente alla periferia e quanto invece si ferma alla fonte, che si chiami Roma ladrona o via Bellerio poco cambia. Ora, se un politico del calibro di Bruno Tabacci (si può discuterne la collocazione, non lo spessore) ha ripiegato a fare l’assessore a Milano lasciando il palcoscenico principale di Montecitorio a gente come Scilipoti qualcosa simbolicamente vorrà pur dire.

E una cosa viene da chiedersi. Ma un Paese che dà così brutta prova di sé come può ancora stare in piedi? Forse – provo a darmi una risposta – perché la mano del buon Dio si stende su quanti tanti, forse la maggioranza fra noi, non si cimentano affatto in questa gara fatua e falsa verso l’apparire, il contare, il comandare e portano avanti semplicemente, con umiltà, il compito loro assegnato. Vogliono bene al loro consorte, e penso ai padri che rimboccano le coperte ai loro figlioletti che già dormono quando tornano a casa tardi, stanchi, dal lavoro, alle madri che sacrificano tante loro ambizioni o le portano avanti con grande sacrificio per rendere felici i loro figlioletti. Ho l’impressione che ci sia il buon Dio a vigilare sulle loro vite. Come su quelle di chi, nei giorni della crisi e degli sprechi pazzi, ancora si impegna per costruire. Per la loro vita, ma non solo per la loro, dobbiamo augurarci che ce la facciano.