Le dimissioni irrevocabili di Umberto Bossi arrivano verso le cinque del pomeriggio e rappresentano un momento da ricordare. Se c’è qualcuno che pensa di aver rappresentato la cosiddetta “seconda repubblica” si illude. Questo periodo confuso di storia italiana, durato più di venti anni, cade oggi, 5 aprile alle ore 5 del pomeriggio, rispettando forse un mistero della Kabbala. E’ stato il “senatùr”, nel bene e nel male, a dare la svolta alla politica italiana all’inizio degli anni Novanta. E’ stato Bossi a interpretare la cosiddetta “seconda repubblica”, con una intuizione politica quasi animalesca, intercettando il malessere del Nord, della Lombardia in particolare, che rappresenta il 3,5 per cento dell’industria manifatturiera europea, e che in quegli anni vedeva che il suo reddito pro-capite cresceva meno (più 0,9) rispetto al Sud (più 1,7) assistito. Era sempre il senatùr a comprendere che la questione non era di “razza” o di “localismo” o di “autonomismo” (“quante stupidate sono costretto a dire”, confidò in casa di Letizia Moratti, all’Eur a Roma, una sera di tanti anni fa), ma legato a un fatto preciso: ogni anno il Nord stacca un assegno che va dai cinquanta agli ottanta miliardi per mantenere il fabbisogno del Paese. Bossi tradusse un disagio, manifestato in modo confuso e diffuso, in questione politica che diventò “questione settentrionale”. Con le dimissioni, non cade solo Bossi, non solo cadrà la Lega Nord (che si frantumerà in lotte di secessione e particolarismi), ma cade di fatto la cosiddetta “seconda repubblica”. L’annuncio che Bossi sia stato promosso “presidente” è un fatto quasi meschino e in parte paracomico: Anche Luigi Longo, dopo la sua malattia, divenne un dimenticato presidente del Pci, gestito dal nuovo segretario Enrico Berlinguer. Forse i leghisti, spaventati dalla dimissioni di Bossi, pensano di arginare un’emorragia elettorale con un “promoveator un amoveatur”. Ridicolo. Del resto, tutto quello che è accaduto nel Paese, in questi venti anni, sono epifenomeni, anche spregiudicati e devastanti, arrivati al traino di una intuizione che ha portato la Lega da piccolo gruppo ( a metà degli anni Ottanta) che faceva riunioni in osterie, a partito di massa all’inizio degli anni Novanta, quando il “nuovo partito” scende dalle montagne e dalle valli alpine, per occupare prima le province del Nord lombardo, poi per “sbarcare in pianura” e insediarsi a Palazzo Marino con il sindaco, ex socialista, Marco Formentini. Infine per estendersi al di là della Lombardia e trapiantarsi in tutto il Nord e in molte piazzaforti del centro Italia. Il fenomeno lo studiavano i sociologi, che però di politica ne masticano poco. L’aver superato il 10 percento dell’intero elettorato italiano fu la svolta reale che fece cadere la “prima repubblica” e fu sospinto da un grande ceto medio, dal “partito dei commercialisti”, come si diceva allora, che votavano la vecchia Dc in massa. E da una parte degli stessi sindacati operai (importante un’analisi del 1992 della Fiom in Lombardia, la maggioranza degli iscritti votava Lega), in questo d’accordo con la controparte padronale: chi ricorda il libro sulla protesta del Nord firmato dall’Anonimo lombardo? Si è sempre detto che Umberto Bossi fosse un autodidatta, dotato di poca cultura. E questo è abbastanza vero, ma su questi giudizi è meglio non esagerare. Tuttavia il fiuto politico del senatùr, rispetto ai suoi compagni di partito e rispetto al personale politico della seconda repubblica, era in quegli anni (una volta scomparsi i partiti democratici e i loro leader) di due spanne superiore alla media. Non gioca a scacchi Bossi, ma la “mossa del cavallo”, la conosce molto meglio di alcuni esponenti di questa sedicente “seconda repubblica”. 



Bossi ha sempre affermato di dovere la sua formazione politica a Bruno Salvatori, teorico dell’ Unione Valdotaine. E’ possibile, ma non decisiva questa affiliazione politica. L’Unione Valdotaine è una realtà storica del tutto differente da quello che ha rappresentato la Lega Nord in questi venti anni. La Lega è riuscita a coalizzare una serie di movimenti locali marginali (che esistevano da decenni) e a trasformarli in una forza politica decisiva, con una rendita politica altissima con poco una forza intorno al dieci percento anche all’interno di un fatiscente bipolarismo. Il particolarismo e il localismo sono stati sempre presenti nella storia della Lega di questi anni. Se si pensa solo alle diverse secessioni che sono avvenute, dai veneti di Franco Rocchetta, ai cantautori piemontesi alla Gipo Farassino, alla “cattolica lefevriana” Irene Pivetti, ai vari ministri improvvisati, agli stessi sindaci di grandi città e medie città, che sono sovraesposti rispetto alla loro vera e autentica capacità politica. Il fatto è che Bossi riusciva sempre, pur facendo epurazioni, a ritrovare un baricentro di nuova unità e di rilancio politico. Il problema è che Bossi ha saputo rappresentare un’idea guida in un momento storico particolare dell’Italia, mentre gli altri pensavano di vivere la loro stagione della promozione politica e anche sociale. Lo stesso Gianfranco Miglio, che passa per un teorico del leghismo, era un grande studioso e probabilmente un grande tecnico costituzionalista, ma di politica reale ne masticava poco. E questo Bossi lo sapeva benissimo. Il limite di tutta la vicenda leghista sta nel fatto che Bossi, da solo, ha fatto veramente “le nozze con i fichi secchi” e, per la natura ribellista, populista e movimentista dei partiti della seconda repubblica, ha dovuto guidare un “partito-persona”. Si tranquillizzino i teorici del federalismo, dell’autonomismo, delle “piccole patrie”. Queste realtà sono sempre esistite, così come le bevute all’Imperatore Cecco Beppe a Trieste, ma non hanno mai contato nulla e d’ora in poi non conteranno più nulla. Il problema è che questo limite, legato a un particolare periodo storico, ha impedito di fatto alla Lega di crescere come partito o movimento organizzato. Un bravo sindaco non farà mai un partito e nemmeno farà una scuola di politica moderna. Resterà un bravo amministratore. Quindi, quello che Bossi rappresentava e quello che dava alla Lega non ritornerà più, sia per il momento storico che è passato, sia per il limite intrinseco della Lega. Nella parabola di questi venti anni ci sono tanti punti oscuri da chiarire, a partire dal “ribaltone” del 1994, da quello che si decise in una casa milanese di “grande borghesia” nel gennaio del 1996, al ripensamento sul rapporto tra Bossi e Silvio Berlusconi. Poi c’è l’incidente della…



…malattia, lo sgomitare dei pretoriani fino alla questione dei fondi, dei soldi alla famiglia e al cosiddetto “cerchio magico”, una sorta di contrappasso rispetto alla corruzione della “prima repubblica”. Ma se lasciamo da parte i moralismi ipocriti e ragioniamo di politica, si capisce che questo fatto è solo il segnale di una decadenza, dettato da un nuovo equilibrio politico che si sta formando, forse addirittura peggiore di quello della “cosiddetta seconda repubblica”. 

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