Non c’è più il Capo ferito e malato, sporcato dagli scandali e da un familismo così tipicamente italiano (non solo meridionale), che dopo il coccolone del marzo 2004 ha travolto lui insieme alla sua creatura, la Lega Nord. Nonostante nel ciclo elettorale 2008-2010 il Carroccio abbia addirittura pareggiato il record di voti del 1996, quando corse libera e bella in solitaria contro “Roma Polo” e “Roma Ulivo”. Era l’ultimo giro di tango radioso, prima del crepuscolo.
Le dimissioni di Umberto Bossi, clamorose nello psicodramma dei militanti e insieme scontate, sono in fondo un atto dovuto, l’estremo tentativo di salvare un partito invecchiato nei vertici, sfuocato nell’agenda politica, spiazzato dalla crisi mondiale e spaccato in fazioni e correnti dopo l’unanimismo bulgaro dei tempi d’oro. Un movimento che ha cambiato per sempre la storia recente, quotando al mercato della politica le ansie, le aspettative, le paure e le ambizioni di interi ceti del nord Italia alla fine del secolo breve: orfani del fordismo, valligiani pedemontani spaesati dalla globalizzazione, partite Iva vessate da fisco rapace, burocrazia borbonica e “Roma ladrona” e infine lavoratori a bassa scolarità in concorrenza con l’immigrazione extracomunitaria che nell’ultimo ventennio si è fatta incipiente nei territori produttivi del nord Italia.
Il federalismo come alfa e omega che riassumeva tutto: padroni a casa nostra, risorse comprese. Fino al grande accordo con l’individualismo proprietario berlusconiano dell’amico Silvio, insultato e poi difeso a spada tratta oltre ogni circostanza: la saldatura del blocco dei produttori che li riporta insieme a palazzo Chigi nel 2001. Fino al terzo ciclo leghista, quello no global di oggi, la paura e la speranza per una modernizzazione incompiuta in cui il rancore verso il sud assistito, il vade retro burocrazia, il meno tasse per tutti si sposa con la paura del diverso, l’anti-islamismo e la protezione della roba contro l’invasione cinese.
Ora toccherà al delfino di sempre, Roberto Maroni. Ma è immaginabile un Carroccio senza più Bossi al comando? È concepibile un supplemento di storia padana dopo 25 anni di protagonismo assoluto? In una parola: ci sarà ancora la Lega dopo il ritiro del Capo carismatico (anche se lui frena e dice che il suo non è un addio)?
Nemmeno quando alle Politiche 2001 scese al minimo storico (3,9%), pagando a caro prezzo il matrimonio bis con Berlusconi che per un pelo non li cannibalizza, il Carroccio era così politicamente in apnea. Nemmeno nei giorni caldi dello scandalo Credieuronord o della malattia del Capo (marzo 2004), il partito era così senza bussola. In quei mesi non fu mai in discussione quel patrimonio di diversità (percepita) e carica antisistema di una forza dalle mani pulite, nata dal lavacro di tangentopoli, che, in fondo, è sempre stata la polizza vita del Carroccio. Un movimento esploso sulle macerie della Prima Repubblica e che, agli occhi della gente, ha sempre rappresentato, magari senza condividere le ragioni della ditta, un modo diverso di fare politica.
Dopo l’affaire Belsito e le accuse pesanti che arrivano al cuore della famiglia Bossi arroccata nella tana di Gemonio, quell’immagine è finita nel cestino. Come nel più classico dei contrappassi, a 20 anni da Tangentopoli, via Bellerio è accusata di tutto ciò contro cui ha sempre lottato, strana nemesi: l’uso truffaldino dei soldi pubblici, addirittura la contiguità con la ‘ndrangheta, le ruberie e il familismo.
E qui esce un altro tratto tipico della provincia produttiva padana. Come nelle classiche imprese a controllo familiare, la distinzione tra la ricchezza della famiglia e il patrimonio nella disponibilità dell’azienda è sempre molto labile. Il fondatore immagina di poterne disporre a piacimento, la roba è sua, non un patrimonio cresciuto negli anni diventato via via bene pubblico di tutti i militanti, a cui persino i vertici sono chiamati a rispondere.
Da anni la moglie del Capo instilla il dubbio all’orecchio del Senatur: “Umberto noi nella Lega ci abbiamo solo messo dei soldi, è la nostra vita, ora qualcuno te la vuole sfilare e ai nostri figli cosa rimane?” Su questo grande equivoco ha preso corpo e forza dopo la malattia dell’Umberto il cosiddetto “cerchio magico” che si è fatto scudo del corpo malato del Capo per farsi strada nel partito, la corte dei miracoli di Gemonio, le gesta del trota, le scorribande dei Belsito e delle Rosi Mauro, brodo di cultura per il malaffare che sta emergendo dalle intercettazioni. Il risultato è che quando si scatena la lotta di successione nella “ditta Lega”, scoppia il putiferio. Tipico.
In attesa dei chiarimenti giudiziari, per la Lega è una botta durissima alla vigilia di un voto amministrativo in cui il Carroccio va a misurarsi in solitaria dopo il decennio forzaleghista finito in flop, senza riforme strutturali e senza federalismo realizzato, la specialità della casa.
Il rinculo sarà fortissimo e non è nemmeno una questione di perdere qualche punto di consenso. La Lega è abituata ad avanzare a fisarmonica, alternando cicli espansivi come negli ultimi anni quando ha saputo fare cestino rubando quel voto moderato in uscita dal berlusconismo in crisi, a cadute improvvise. Il nodo è più profondo e investe l’essenza stessa del leghismo, un movimento tribale, leaderista, incarnato da un capo ex legibus solutus.
Maroni tenterà di ripartire dalla nuova leva degli amministratori locali. Ma anche lui è un leader stagionato, avendo attraversato tutta la stagione leghista a fianco di Bossi.
E poi il vero capolavoro politico del Senatur è stato federare insieme le litigiose leghe del nord di metà anni Ottanta, mettendo insieme lombardi, veneti e piemontesi da cui nacque la Lega Nord, fondamentale per trasformare la ridotta pedemontana post Dc nella grande Padania.
Dopo di lui che succederà? Terrà l’alleanza o i “lighisti” veneti andranno per conto loro? E le frizioni sempre domate varesini-bergamaschi? E i piemontesi che faranno? Dunque Bossi prende cappello, al di là di tutto un atto di generosità verso la sua Lega, dopo aver preferito i figli negli ultimi anni e averli fatti scendere in politica, errore impersonabile. Ma non è detto che basti. Dopo le dimissioni dell’amico Silvio, la Seconda Repubblica è finita per tutti…