Che l’aria della Capitale gli avesse fatto più male che altro s’era capito. Da ruspanti padani che arringavano le masse lanciando fatwe contro Roma ladrona, sono diventati imbolsiti parlamentari grigi, distinguibili giusto per il fazzolettino o il cravattino d’ordinanza verdi. E qualche sortita folklorisitca. Tutti si invecchia, e un minimo di imborghesimento, i loro elettori, potevano anche sopportarlo. Lo hanno fatto per vent’anni. La possibilità che il sogno federalista si realizzasse valeva ben qualche compromesso, perfino l’apparentamento con l’odiato Berlusconi, il “mafioso” di Arcore come amava definirlo Bossi. Però, a tutto c’è un limite. Che la Lega sia, ormai, sinonimo di poltronismo e malaffare vuol dire averlo superato. Gli scandali recenti, poi, sono stati la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Per correre ai ripari, il ragionamento di Maroni è semplice: stare in Parlamento ci ha rovinato. Noi, lasciamo il Parlamento. Non sarà un po’ troppo? Lo abbiamo chiesto a Stefano Bruno Galli.



Secondo lei, cosa intendono fare effettivamente? Si dimettono in massa?

Mi pare altamente improbabile. È molto più concreta e realistica l’eventualità di non ripresentarsi alle elezioni nel 2013.

Alla Lega converrebbe realmente? In Italia tutti i partiti spariti dal Parlamento (Verdi, Rifondazione, Comunisti italiani, Socialisti) sono anche spariti dalla faccia della Terra.



È vero. Ma per la Lega vale un altro ragionamento. Si tratta di un partito territoriale e in futuro potrà riacquisire vigore se riuscirà a configurarsi come partito di raccolta, sulla scorta dei movimenti autonomisti classici. Come il Südtiroler Volkspartei o l’Union Valdôtaine. Gli abitanti di Trentino e Val d’Aosta possono essere di destra, di sinistra, laici o cattolici. Ma votano questi partiti perché garantiscono la tutela dei loro interessi territoriali.

A quel punto, però, la Lega dovrebbe rinunciare, su scala nazionale, al federalismo.

Non direi. La Lega deve, anzitutto, arroccarsi nel proprio fortino elettorale, riconquistare gli elettori e arrivare al punto da riuscire a intestarsi, in via esclusiva, la delega alla questione settentrionale. A quel punto, il negoziato con Roma potrà avvenire su nuove basi.



Cioè?

In sostanza, la Lega potrebbe presentarsi a Roma dicendo: «abbiamo 15 milioni di voti. Vogliamo dar vita a un disegno di federalizzazione del Paese, per esempio, attraverso il decentramento della fiscalità». 

Crede che, in ogni caso, l’obiettivo ultimo sia quello di tornare nella stanza dei bottoni, una volta riacquisita una verginità politica e fatto dimenticare agli elettori che sono stati, bene o male, quasi due decenni al governo?

Non credo. Nell’ultimo decennio hanno cercato di promuovere, dall’interno delle istituzioni, le riforme federaliste. Questa strategia si è rivelata fallimentare. In futuro, quindi, contratteranno con lo Stato, rimanendone fuori.

Contrattazioni di questo genere, in Italia, sono mai andate a buon fine?

Gli autonomismi storici hanno avuto forza negoziale in quanto espressione, in Val d’Aosta, come nel Sudtirol, di una diversità. Che, nel loro caso, è di natura etnico linguistica.

E nel caso del nord e della Lega?

La diversità si misura in termini economici, produttivi e fiscali. Siamo abituati a concepire la Nazione come un prodotto della cultura e della lingua. Ma anche la dimensione economico-produttiva genera la Nazione. In questi termini, la differenza del nord rispetto al resto della penisola è evidente.  

Però le Regioni menzionate sono pur sempre a statuto speciale.

Appunto. La forza proveniente dalla diversità ha consentito il riconoscimento della specialità. La contrattazione può proseguire, quindi, sugli stessi binari. Nel momento in cui si assume che Lombardia, Piemonte e Veneto costituiscono oltre la metà del Pil a beneficio del resto del Paese, la diversità con il resto del Paese, non può non essere riconosciuta.  

In ogni caso, la Lega, ritirandosi dal Parlamento non godrà più dei rimborsi elettorali. Di cosa vivrà?

Di militanza e volontariato diffuso. Resterà solo chi ci crede fino in fondo.

Crede che si sarebbe arrivati a questo punto anche senza i recenti scandali?

Sì. Si tratta dell’esito, in fondo, dell’asse con il partito Berlusconi. Forza Italia, quando è nata, era espressione degli interessi del Nord e, allora, l’alleanza poteva avere un senso. Poi, ha subito un’oggettiva meridionalizzazione. Contestualmente, la Lega, sacrificando le ragioni del nord a quelle dell’alleanza, ha perso, in parte, il rapporto con il suo elettorato.

Perché solo in parte?

Restano pur sempre i sindaci leghisti. Ottimi amministratori con un rapporto diretto con il territorio e in grado di rappresentare il punto da cui ripartire. 

(Paolo Nessi)