Per salvare le innovazioni della Seconda Repubblica e aprire una nuova stagione della politica italiana che non ripeta i difetti della Prima, il Popolo della Libertà ha proposto oggi il “modello francese”, in una conferenza stampa al Senato con il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e il segretario del Pdl, Angelino Alfano. I contorni sono ancora da definire, anche se al centro del disegno del Popolo della Libertà c’è l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. «I tempi ci sono, ce la possiamo fare», ha ribadito Alfano. IlSussidiario.net ha chiesto un parere ad Alessandro Mangia, Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Piacenza.
«Sinceramente mi sembra un’iniziativa più politica che istituzionale, all’indomani di una tornata elettorale molto negativa per i partiti tradizionali – spiega il Professore –. Non è ancora chiaro infatti quali potranno essere i poteri del Capo dello Stato e se si vuol far riferimento a un sistema presidenziale o a uno semipresidenziale».
Quali sono i punti più importanti che andrebbero chiariti?
Innanzitutto bisognerebbe chiarire fino in fondo se l’obiettivo è un sistema presidenziale simile a quello degli Stati Uniti, nel quale il capo dello Stato eletto dal popolo sta anche al vertice dell’amministrazione federale, o se invece si pensa a un modello semipresidenziale nel quale il presidente governa attraverso un primo ministro. Il presidenzialismo di Berlusconi sembra in realtà l’importazione nel nostro sistema del semipresidenzialismo francese. E allora, se si guarda alla Francia, il primo problema – e il più delicato – riguarda il potere del Capo dello Stato di sciogliere discrezionalmente le camere, che da noi non è mai stato sperimentato e su cui, in sostanza, si era avuta la rottura nella Bicamerale del 1997.
Dopodiché andrebbe ripensata anche la legge elettorale.
Anche su questo tema c’è una contraddizione. Perché se si punta a un sistema francese bisognerebbe andare verso il doppio turno, non verso un proporzionale corretto come quello su cui si sta lavorando da qualche mese in Senato.
Il richiamo al doppio turno ha tutta l’aria di essere un tentativo di trovare una sponda e un interlocutore in quella parte del Pd che è rimasta affezionata all’idea del doppio turno dopo il venir meno della Bicamerale.
Più volte in conferenza stampa si è fatto riferimento a quell’esperienza. Ma per quale motivo fallì?
In realtà, a parte il dissidio sul potere di scoglimento, il vero motivo non è mai stato chiarito con nettezza. Oggi l’ex presidente del Consiglio ha attribuito le responsabilità alla sinistra, anche se io credo che, alla fine, quel progetto, essendo troppo ampio, non soddisfacesse nessuno. Attenzione, quel lavoro non è comunque andato perduto, dato che le riforme costituzionali del 1999 e del 2001 hanno attinto ampiamente dalle soluzioni elaborate nel 1997. Ora si prova a riesumare la parte relativa alla forma di governo, anche se è difficile dire con quali risultati.
Passando alle tempistiche, secondo il Pdl il sistema politico è ancora in tempo, mentre secondo il Pd, al di là della discussione sui contenuti, «ormai è troppo tardi».
In astratto i tempi potrebbero esserci, visto che in pochissimo tempo si è proceduto alla riforma dell’art. 81 che ha messo il vincolo del pareggio di bilancio in Costituzione: una riforma, a mio avviso dannosissima e di cui si è paralto molto poco.
Diverso il ragionamento sulla fattibilità politica. Stiamo andando verso il 2013, e cioè verso una fase in cui si concentreranno scioglimento delle camere e rielezione del Presidente della Repubblica. Staremo a vedere, è comunque un treno che se si perde ripasserà solo nel 2020. E devo dire che, fare una proposta in Senato con una mano e con l’altra portare avanti il lavoro della Commissione, può solo contribuire alla confusione.
Non è così, secondo lei, che si possono rendere solide e governabili le istituzioni?
Vede, il fatto è che da vent’anni si dice che chi arriva nella stanza dei bottoni, i bottoni non li trova più. Questo, a mio avviso, avviene per due ordini di motivi, tra loro assai diversi: da una parte sta l’attuale assetto dell’amministrazione pubblica e del sistema politico. E questo è un discorso vecchio. Ma il fatto più rilevante è che ormai le decisioni più significative, e cioè le decisioni che incidono a fondo nella vita dei cittadini, vengono prese fuori dall’Italia.
Quando un Paese non ha più in mano il governo della moneta e si vincola gioiosamente al principio del pareggio di bilancio significa che è ormai ridotto al ruolo di esecutore di decisioni prese altrove. Ma questo problema non si risolve certo con il “modello francese”…
(Carlo Melato)