Al netto di tutte le considerazioni contingenti che hanno riempito le cronache politiche e fantapolitiche, va detto che il risultato elettorale è innanzitutto esito di un’enorme delusione. Sarebbe meglio smetterla con il refrain dell’antipolitica: piuttosto, quel che è avvenuto, così come il clima che si respira, nascono dall’illusione che sia la politica a salvarci, quella di chi ci ha governato fin qui o quella di chi pretende oggi di contestare tutto.
Nelle ultime elezioni politiche del 2008 Silvio Berlusconi e la sua coalizione avevano ottenuto una maggioranza quasi mai raggiunta da altri schieramenti. Gli italiani non ne potevano più di anni grigi di statalismo soffocante e ci si aspettava (finalmente!) una svolta liberale, assente in Italia dai primi anni del Dopoguerra quando tutti, Stato e privato, maggioranza e opposizione, nonostante le divisioni ideologiche, avevano collaborato per la ricostruzione e il boom economico. Ci si aspettava un’inversione di tendenza dopo l’orgia collettiva degli anni Ottanta, in cui, con la responsabilità di tutti, si era pensato di poter risolvere definitivamente i problemi sociali degli italiani dilatando a dismisura la spesa pubblica (portando il debito pubblico dal 60% al 120% del Pil).
Si sperava in un’inversione di rotta dopo governi che avevano sostenuto una burocrazia vecchia e stantia, un prelievo fiscale altissimo, una spesa pubblica clientelare e inefficiente, una scuola centralistica caratterizzata da abbandoni e scarsa qualità, una scarsa considerazione del mondo delle piccole e medie aziende (anche di quelle competitive), una giustizia spesso amante dei riflettori, ma oltremodo lenta e inadempiente nei confronti delle persone comuni.
La gente ha sperato che Berlusconi e la sua coalizione mettessero fine a tutto questo. Ma perché non è avvenuto? Perché tutte le forze politiche hanno accettato in pieno l’assunto della Seconda Repubblica nata da Tangentopoli, quello di una politica non legata a partiti popolari, a realtà di base, a istanze popolari e economiche, ma la politica dell’one man show, dei talk show televisivi, dei congressi di partito inesistenti e delle scelte di candidati fatti dalle segreterie, spesso tra clientes o persone senza cursus honorum. Una politica che quando pensa al federalismo riesce al massimo a concepire gli enti locali come piccoli Stati decentrati, autoreferenziali e comunque non in funzione delle realtà di base che dovrebbero servire, e immagina di trovare consenso inventandosi fantomatici circoli di base creati però dall’alto.
Cos’è invece una vera svolta liberale? È la scommessa sull’io, sulla persona, non funzionale ad alcun progetto sociale o politico, ma capace di generare novità, cambiamenti positivi nell’economia e nel sociale. È la convinzione che nessun cambiamento politico-sociale ci sarà se non c’è un cambiamento radicale nell’uomo, una presa di coscienza di chi siamo, di ciò che desideriamo e necessitiamo: un gusto e una soddisfazione più profondi, che implicano il bene degli altri, di fronte a cui il mero desiderio di esercitare un potere è poca cosa; la capacità umile di ammettere i propri errori; la disponibilità continua a cambiare di fronte a nuove situazioni; la voglia indomabile di costruire non solo per sé, ma per il popolo a cui si appartiene.
Una persona così, dice don Giussani, non rimane isolata, ma si mette insieme ad altri in formazioni sociali che, se rimangono tese all’ideale che le ha costituite e non corporative, sono in grado di educare e spingono a costruire “opere” che rinnovano economia e società. La novità non verrà nemmeno da nuove realtà che appaiono vincenti se il loro credo è ancora nel potere salvifico della politica, e non mettono a tema il cambiamento dell’io e della società.
A destra, a sinistra o al centro, chi crede in una svolta sussidiaria e liberale deve invece mettere a tema questa lunga marcia di cambiamento personale e collettivo, alla ricerca di una verità di se stessi. E chi voglia impegnarsi in politica deve farlo determinato dal desiderio di servire il popolo, e per questo esserne parte in un dialogo continuo, teso a valorizzare tutti i tentativi virtuosi di risposta ai bisogni della gente presenti nella società.
Allora, si può avere il coraggio di riformare scuola e università, perché ci sia un’educazione all’altezza del suo scopo; incentivare e detassare le imprese che creano occupazione, investono, esportano; riformare la giustizia, non con leggi ad personam, ma evitando che gli innocenti vadano in galera e i più debbano aspettare anni per vedere celebrati i processi; attuare un federalismo fiscale dove chi spreca smetta di scialacquare e chi è virtuoso sia premiato.
Il lavoro dell’Intergruppo per la Sussidiarietà è stato un esempio virtuoso di dialogo su questi temi, purtroppo reso marginale dalle stesse forze politiche e valorizzato dal solo presidente Napolitano (ad esempio in occasione del Meeting di Rimini dello scorso anno). In generale però occorre essere realisti: perché il cambiamento descritto avvenga bisognerà lavorare molto e avere molta pazienza. Ma chi si muove per un ideale e non per un’egemonia non ha fretta, perché vive già una soddisfazione in quel che è e fa.