Il limite del centrosinistra italiano sta nell’alto tasso ideologico. La difficoltà quasi congenita a emanciparsi da un approccio fatto di ricette preconfezionate e l’eterno timore di essere scavalcati a sinistra. Il limite del più recente centrodestra sta in un elevatissimo tasso di personalismi, che ha corroso nel tempo la capacità di assumere decisioni vitali per il rinnovamento del paese e ha minato alla radice la fiducia degli elettori moderati.

Pensiamo a quanto hanno sprecato i partiti negli ultimi anni. Consideriamo che il centrosinistra aveva esibito alle politiche del 2006 l’alleanza più vasta che si fosse mai vista in Italia, sotto l’egida del “tutti contro Berlusconi”.
Pensiamo all’incredibile esito delle più recenti elezioni, dove sulla base di un consenso senza precedenti il centrodestra è riuscito a collassare, vanificando il patrimonio di una rilevante maggioranza parlamentare, e ci rendiamo conto che in questo momento gli elettori normalmente ancorati a tradizioni popolari come quella cattolico-liberale e quella socialista hanno risolto in modo imprevisto il dilemma del voto.

Sono passati ai fatti, dalle forze popolari alle forze populiste, bollando come inaffidabili gli interlocutori di questi ultimi anni. Nel centrodestra ci si chiede da chi ripartire, saltando ancora una volta a piè pari la domanda più ragionevole. Da quale contenuto ripartire? Da quale visione dello sviluppo? Da quale idea di rapporto tra Stato e società? Questa difficoltà a produrre una politica che differisca radicalmente da una piattaforma di marketing rischia di mortificare il senso stesso dell’esperienza politica confinando gli ideali e gli interessi legittimi ai margini di analisi tanto sofisticate quanto incapaci di andare oltre l’inseguimento dei sondaggi sui temi più svariati.

Le prossime elezioni saranno innanzitutto un referendum sull’Europa. Forse per la prima volta, attraverso il voto, gli italiani promuoveranno o bocceranno senza appello la convinzione che le istituzioni europee e i trattati possano continuare a garantirci pace e sviluppo. Appare quindi risibile confinare un programma politico del centrodestra in un piagnisteo di scarso spessore fatto di frasi del tipo:”è colpa dell’Europa”, o peggio ancora di pericolosi rigurgiti nazionalistici. Ci vuole insomma, per la prima volta in una tornata politica italiana, un’idea chiara dell’Europa e del ruolo dell’Italia in Europa.

L’andamento, ormai cronico, di più di un anno di “spread”, crisi, aumento della disoccupazione, dimostra in maniera evidente che il problema è l’Europa. Il problema è la mancanza di una governance comune e forte. Il problema è la timidezza dell’Unione europea nel prendere decisioni. Il problema è la cessione di fatto e volontaria della sovranità degli Stati membri non a organi sovranazionali, istituzionalmente riconosciuti, (Commissione europea e Parlamento europeo) ma la subalternità a un paese, la Germania, che si è imposto sugli altri, guadagnando in termini di finanziamento del debito e in competitività dalla debolezza altrui.

Il problema è la mancanza di solidarietà e di meccanismi redistributivi (Eurobond e Unione dei trasferimenti); la masochistica distinzione tra paesi rigorosi e non; la confusione ricorrente e strumentale sui concetti di rigore e di crescita, che non sono opposti ma complementari. Il problema è il ruolo fortemente inadeguato della Banca Centrale europea, che non svolge, per mandato, al contrario delle principali banche centrali del resto del mondo, una funzione di prestatore di ultima istanza. Il problema cioè è andare avanti. E per andare avanti, chi vuole avere la leadership dei moderati in Italia non può limitarsi a immaginare contenitori fatti per limitare i danni e prepararsi a inverosimili momenti migliori. 

Deve sciogliere le vele e muovere in mare aperto. In concreto ciò significa sciogliere la riserva su un’idea di sviluppo, magari targata centrodestra, ma ottusamente ancorata a una visione preminente dello Stato. In Europa ci sono 23 milioni di imprese. In Italia 5 milioni. Un radicale taglio dei costi della burocrazia, anche di quella che ostacola il completamento del mercato unico, consentirebbe a ognuna di esse di promuovere un’assunzione. Ventitré milioni di nuovi posti di lavoro. Il dato può apparire incredibile, ma consideriamo per esempio che il costo per aprire un’azienda negli Stati Uniti, in Brasile, in India, o in Cina oscilla tra i 500 e i 600 euro. Nei 27 paesi dell’Unione europea la media è 2.250 euro. 

Non possiamo pensare cioè di affrontare un momento così delicato riducendo il dibattito al look di chi dovrà governare. Pensando che la spendibilità mediatica di chi ci deve guidare in circostanze così drammatiche valga di più della verità e delle buone idee. L’elettorato antitetico alla sinistra in Italia e in Europa confida da sempre nella prevalenza e nella centralità della persona rispetto alle istituzioni. 

Le istituzioni infatti sono frutto di un patto di libertà. Un patto di libertà in base al quale i cittadini cedono quote della propria sovranità personale in cambio di garanzie e di servizi. Le istituzioni, in questo senso, sono appunto garanti, non padrone della nostra vita. Quando da garanti si fanno padrone cessa l’esperienza dei governi e comincia quella dei regimi. Per evitare il peggiore dei regimi, quello che non è frutto di occhiute dittature, ma del caos conseguente l’incapacità di assumersi le proprie responsabilità, occorre che i partiti di centrodestra in Italia si interroghino.

Prima ancora di chiedersi come riorganizzarsi per contendere agli altri quote dell’elettorato moderato, serve che decidano di stare insieme, valorizzando il patrimonio di idee e convincimenti comuni. Dando spazio cioè a ciò che unisce più che a ciò che divide. 
I giorni dopo una sconfitta possono essere preziosi se spesi non solo per mettersi in discussione, ma per affermare il senso di ciò che giustifica la nascita di un progetto politico ambizioso e forte, capace di garantire attraverso la partecipazione il bene e la prosperità di un popolo.