Dai tesorieri di partito ai grandi manager della finanza, dai parlamentari ai presidenti di regione, l’agenda politica e mediatica italiana continua a essere scandita dalle inchieste delle procure. «Quando si crea un vuoto decisionale e le elite politiche collassano gli ordini tendono a trasformarsi in potere, a cominciare dalla magistratura» commentava qualche giorno fa il professor Giulio Sapelli su queste colonne.
«In un paese sano l’azione giudiziaria dovrebbe portare alla condanna di chi commette reati. In Italia però a nessuno sembra più interessare come vadano a finire i processi. Soprattutto quando si tratta di politica, conta più il polverone che il giudizio finale» dice a IlSussidiario.net l’On. Giuseppe Cossiga, già sottosegretario alla Difesa e figlio dell’indimenticato ex presidente della Repubblica. «E così, più che perseguire le ipotesi di reato per arrivare al più presto alle condanne e alle assoluzioni, alcune persone, che evidentemente si sentono investite del ruolo di tutori della democrazia, inseguono la propria visibilità costruendo castelli accusatori il cui unico obiettivo sembra la distruzione mediatica del proprio bersaglio». 



Come si spiega questo fenomeno?

Vede, io non credo che ci sia dietro un disegno. Se confrontiamo infatti questa stagione all’ultima nella quale la giustizia ha giocato un ruolo determinante, cioè Tangentopoli, è evidente che la magistratura in questo caso è meno strutturata nel perseguimento di determinati obiettivi.
Vent’anni fa un potere attaccò un altro potere, quella a cui stiamo assistendo oggi mi sembra invece una “caccia libera” portata avanti da “cacciatori liberi” nei confronti della parte più debole del sistema.



Che sarebbe?

La politica.

Non si rischia di passare dalla retorica anti-Casta al vittimismo?

No, il fatto è che la Seconda Repubblica non è stata in grado di rafforzarsi davanti agli occhi dell’opinione pubblica. E così oggi l’uomo politico è impotente, di qualunque nefandezza venga accusato, l’opinione pubblica è pronta a condannarlo.
Il problema è che il conto della “vittime” non lo fa nessuno. Quante persone sono state distrutte da un sistema in cui ciò che conta è l’accusa sparata sui giornali per poi veder crollare l’impianto accusatorio a distanza di anni, nel silenzio più assoluto dei media?
Ho visto dei colleghi parlamentari andare in carcere con 27 capi di accusa che coprivano tutti le ipotesi di reato, per poi uscire dopo mesi come se niente fosse…



Nella sua analisi l’informazione sembra avere un ruolo importante.

Anche la stampa a mio avviso dovrebbe fare una riflessione su quanto sta accadendo. Non parlo solo della carta stampata perché siamo immersi in un mondo in cui una pluralità di strumenti crea e diffonde notizie nell’arco di trenta secondi. Chi è in grado di gestire questi meccanismi sembra addirittura in grado di creare una sorta di realtà virtuale che modifica la percezione della realtà. Parallelamente, sembra andare perso il senso critico per cui si tende a credere a qualunque cosa, come se tutte le voci e gli strumenti avessero la stessa credibilità. 

È un tema estremamente complesso, ovviamente, e impone una grandissima prudenza se si vuole cercare di migliorare la regolamentazione. 

Tornando all’aspetto politico, in questi anni anche maggioranze incredibilmente ampie, che avevano messo in agenda la riforma della giustizia sono tornate a mani vuote. Per quale motivo secondo lei?

Mi sono comunque fatto l’idea che la paura di alterare equilibri consolidati abbia fermato anche i governi più intenzionati a risolvere il problema. In questo la politica, e il governo di cui ho fatto parte, ha sicuramente fallito. La “rivoluzione liberale” non è stata realizzata e non possiamo illuderci che oggi la facciano i tecnici.

E come potrà tornare a essere credibile la politica dopo questa parentesi?

L’errore più grave in questo momento di difficoltà sarebbe quello di seguire l’onda dell’opinione pubblica, come fanno i movimenti anti-sistema. La politica deve tornare ad avere il coraggio di spiegare anche le questioni complesse, anche se si corre il rischio della sconfitta e dei fischi in piazza. Chi insegue il risultato immediato e il facile applauso non andrà lontano. 
Detto questo, se si continua ad alimentare l’anti-politica le persone di qualità abbandoneranno questo campo e sceglieranno di starne alla larga il più possibile. 

Da ultimo, un suggerimento al suo partito, il Pdl, alle prese con un dibattito sul suo possibile rilancio.

Per prima cosa il Popolo della Libertà dovrebbe smettere di dire che è tutto da rifare e dovrebbe tornare a fare proposte politiche serie sui temi che stanno cari alla gente. Altrimenti ogni giorno possiamo anche annunciare grandi cambiamenti senza nemmeno sapere per quale motivo e soprattutto per quali obiettivi dobbiamo farlo.