L’Imu oggi in vigore, l’imposta che sta creando una quantità di problemi raramente vista nella storia del nostro sistema tributario, è figlia dell’emergenza: nasce con il decreto Salva Italia che ha modificato l’imposta originariamente prevista dal federalismo fiscale, destinata a entrare in vigore nel 2014, assieme all’imposta municipale secondaria, nell’ottica di semplificare il farraginoso catalogo delle imposte locali (ben 18 diverse forme di entrata: dall’Ici alla “tassa sull’ombra”). Questa, quella originaria, era un’Imu più leggera ed esentava la prima casa. L’Imu oggi in vigore è una sorta di Avatar della “vecchia” Imu: nasce appunto con il decreto Salva Italia, è stata scritta nel pochissimo tempo che il Governo aveva a disposizione per varare la manovra e doveva permettere di incassare la maggior parte del nuovo gettito necessario per sistemare i conti (sugli immobili effettivamente insisteva un carico fiscale inferiore a quello medio europeo).



Di quella originaria l’Imu di oggi mantiene il nome e la struttura, ma ha subito profonde modifiche, che ne alterano almeno in parte la natura. La prima modifica è che si applica, ma con un’aliquota ridotta, anche alla prima casa; questo è positivo e colma un difetto della precedente versione, perché rafforza il legame tra l’elettore residente e la politica locale rendendo maggiormente efficace il controllo democratico. Le altre modifiche sono invece molto meno condivisibili e hanno contribuito a creare il caos che riempie ormai da qualche mese le pagine dei quotidiani. La seconda modifica è, infatti, che la nuova Imu ha una doppia faccia, nascosta.



Mantiene, infatti, il nome di imposta “municipale”, ma metà del gettito sulle seconde case (9 miliardi) lo prende lo Stato. Non solo: i Comuni perdono di fatto anche il gettito derivante dall’estensione alle prime case (3,8 miliardi), perché il Salva Italia ha ulteriormente tagliato il fondo di riequilibrio destinato ai Comuni per altri 5,65 miliardi. La terza modica è che il Salva Italia ha imposto le rivalutazioni catastali, per cui la base imponibile dell’Imu viene quasi raddoppiata. In definitiva: la nuova Imu è un’imposta che pesa più del doppio rispetto alla vecchia Ici, sarà il Comune a metterci la faccia di fronte agli elettori quando arriverà la cartella esattoriale (l’imposta continua a chiamarsi “municipale”), ma questi elettori non vedranno nessun miglioramento nei servizi municipali, perché il Comune non riceverà nemmeno un euro aggiuntivo: il maggior gettito lo incassa lo Stato.



Queste due modifiche, assieme all’anticipo al 2012, hanno creato tutti i problemi cui stiamo assistendo. Per questo motivo, la Copaff (la Commissione tecnica sul federalismo fiscale) sta lavorando, su incarico del Governo, a una nuova riformulazione dell’Imu per l’anno prossimo, in modo che vengano corrette le attuali distorsioni. Diverse sono le ipotesi allo studio, che convergono però su un punto comune: quello di assegnare l’intero gettito dell’Imu ai Comuni, eliminando la compartecipazione statale sul prelievo statale sulle seconde case e contemporaneamente eliminando le attuali compartecipazioni comunali ai tributi erariali. La modifica deve essere strutturata in modo da rendere razionale l’imposta e nel contempo non creare un buco al bilancio dello Stato.

Per ottenere questo risultato sono possibili tecnicamente diverse soluzioni, che variano da una perequazione interamente orizzontale fra i Comuni, alla modifica, riducendone il carico, dell’Imu sulle imprese compensandolo, totalmente o parzialmente, con una sovraimposta statale sui grandi proprietari immobiliari (con franchigia di esenzione di 1 o 2 milioni di euro). Va considerato infatti che l’Imu ha aumentato, nell’aliquota piena, il carico fiscale sulle imprese: è infatti calibrata sull’assorbimento dell’Irpef sui redditi fondiari, che le imprese non pagavano. In questo modo, gli immobili delle imprese ritornerebbero sotto la pressione fiscale originariamente prevista dall’Ici. Si realizzerebbe quindi anche un fenomeno di fiscal devaluation, spostando il carico fiscale dai patrimoni produttivi a quelli improduttivi, determinando così una spinta alla crescita economica.