Sarà il clima politico conciliante, la congiuntura storica, il timore (soprattutto) considerando il disprezzo generalizzato della casta, dell’esposizione al pubblico ludibrio. Sta di fatto che, quanto fino a pochi mesi fa era impensabile, è accaduto. Il Palazzo inizia ad autoriformasi. Almeno in parte. Almeno ne ha dato parvenza. La Camera, infatti, ha votato le tre fiducie sul ddl corruzione. E’ passato, in particolare, l’articolo 10 sull’incandidabilità dei condannati; con 461 sì, 75 no e 7 astenuti si è stabilito che il governo è delegato ad adottare, entro un anno, un testo unico che definisca la normativa relativa all’impossibilità per i condannati di presentarsi alle elezioni per il Parlamento europeo, per la Camera e il Senato, o per qualsiasi altra carica elettiva pubblica. Un passo storico, pare. Non esente da luci e ombre. In attesa che la palla passi al Senato, Vincenzo Tondi Della Mura ci spiega quali sono.



Anzitutto, può riassumerci la nuova norma?

In sostanza, chi è stato condannato con sentenza passata in giudicato per delitti non colposi, non può candidarsi in Parlamento, al Parlamento europeo, e in tutti i Consigli degli enti locali.

Come la giudica?

Si tratta di una norma che esprime l’attuale momento storico. Evidenzia la gravissima crisi politica, sociale, morale e di costume in cui versa il Paese;  e sancisce la necessità di trasformare un divieto etico in una garanzia funzionale. Rappresenta il passaggio da un sistema in cui erano garantite esclusivamente le esigenze del singolo, ad un impianto più attento a quelle di natura sociale, ove prevalgano le necessità della cittadinanza e l’obbligo di non sperperare le risorse pubbliche a causa del malcostume. Può definirsi, in parte, la ripresa e il compimento di un processo avviato diversi anni fa.



A cosa si riferisce?

La legge numero 16 del 18 gennaio 1992 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali) rappresenta il precursore dell’articolo votato da Montecitorio; essa prevedeva il divieto di candidatura, nei Consiglio regionali, per chi avesse riportato condanne per una serie di delitti gravi e di particolare allarme sociale.

In questo caso, i reati sono generici

Esatto. Si parla esclusivamente di delitti non colposi.

Sarà, quindi, compito del governo, in sede di definizione, stabilire quali siano in reati che escludano dalla candidatura?

Il governo potrebbe compiere un’operazione di questo tipo. Ma potrebbe anche decidere di mantenere la genericità.



Non crede che ci siano una serie di reati (quelli di opinione, per esempio) per i quali l’incandidabilità appare esagerata?

Certo. Da questo punto di vista, la legge del ’92, è strutturata meglio. Fa riferimento a tutti quei reati che denotano un effettivo allarme sociale e che potrebbero inficiare la tutela del bene comune quali, per esempio, il traffico di stupefacenti, l’associazione a delinquere, il contrabbando d’armi, i crimini contro la persona o le malversazioni contro lo Stato. E’ indubbio che, per il momento, l’estensione della norma sia troppo ampia. Se il reato non è funzionale alla tutela del bene pubblico, infatti, non si capisce per quale ragione adottarlo come criterio per l’incandidabilità.

Dal punto di vista costituzionale, pensa che la norma sia legittima?

Direi di sì. Anzitutto, gli articoli 56 e 58 della Costituzione affermano che «sono eleggibili» a deputati o senatori tutti gli elettori; contestualmente, l’articolo 48 afferma: «Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge».

Quindi?

Si presuppone che la capacità passiva (essere eletto) faccia riferimento a quella attiva (eleggere). Significa che chi non dispone della facoltà di eleggere non possa neanche essere candidato. C’è, inoltre, l’articolo 65, secondo il quale «la legge determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di deputato o di senatore». Il 51, infine: «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge». Ecco, la normativa attuale non sta facendo altro che stabilire tali requisiti. E, in un certo senso, perfeziona la Costituzione.

Cosa intende?

All’epoca in cui fu scritta, vi era un contesto sociale in cui la deterrenza etica aveva efficacia. Le figure di impianto costituzionale, come l’ineleggibilità e l’incompatibilità, tipiche dei sistemi liberali, si sono rivelate inadeguate. Il livello del condizionamento del malaffare alla libertà di voto, infatti, si è nel tempo evoluto. Persone che rientravano in queste fattispecie si sono candidate egualmente e, solo eventualmente e solo in un secondo momento, hanno rinunciato alla carica o alla causa di ineleggibilità. Nel frattempo, tuttavia, hanno inquinato il voto. Con la nuova norma, il problema viene risolto alla radice.

Un’ipotetica obiezione di incostituzionalità, quindi, sarebbe destinata ad essere rigettata? 

La legge del ’92 è già stata sottoposta al sindacato della Corte Costituzionale. Che, con sentenza 141 del ’96, l’ha corretta nel punto in cui non faceva riferimento esclusivamente alle sentenza passate in giudicato.

La norma apre al rischio di un’ingerenza della magistratura nella scelta delle nomine?

Indubbiamente sì. Storicamente, tuttavia, l’ingerenza della magistratura viene attenuata dai tre gradi di giudizio che rappresentano la più alta garanzia assicurabile in uno stato di diritto. Sarebbe molto peggio impedire, come hanno chiesto in molti, di impedire l’accesso al Parlamento agli indagati. Questo sì che sarebbe incostituzionale. 

 

(Paolo Nessi)