Caro direttore,
L’articolo di Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della Sera” di domenica, “L’irrilevanza dei cattolici”, solleva, con molte buone ragioni, un problema reale: quello dell’assenza di un pensiero cattolico sull’Italia contemporanea. Non si tratta, secondo Galli, semplicemente di un problema politico – quello di un partito cattolico di cui non si avverte la mancanza -, ma di un problema ideale a fronte di un sistema sociale e politico minato da una crisi senza precedenti. «Ed è qui proprio che però il silenzio cattolico è più alto. Non quello di singoli credenti, naturalmente, ma il silenzio di quella che si chiama la presenza cattolica nel Paese, del cattolicesimo organizzato (dalle Acli all’Azione Cattolica, ai tanti movimenti; e ci metterei pure la Cisl e l’Udc…)». Per Galli questo silenzio è documento di una irrilevanza d’opinione, di idee; di assenza di approfondimenti significativi, di punti di vista forti. L’atmosfera dominante e quella interna alla Chiesa spingono «il cattolicesimo italiano non solo a disinteressarsi della “grande” politica (che è poi la sola, vera politica) ma anche a disinteressarsi dell’Italia.[…]. La sola voce cattolica che oggi si fa sentire nello spazio pubblico sembra essere quella che si concentra sul tema (significativo, chi ne dubita?, ma certo non proprio generale) della “difesa della vita”. Per il resto l’impressione è che nel mondo cattolico tutto tenda a ridursi tra i fedeli a un certo astratto moralismo, e al vacuo, sempre prevedibile, precettismo delle relazioncine somministrate mensilmente nelle riunioni della Cei. La conclusione non può che essere una: con la fine della Dc il cattolicesimo italiano sembra aver cessato di essere matrice di una possibile cultura politica».
Una conclusione pessimistica e realistica ad un tempo, che coinvolge la stagione post-democristiana, inaugurata dai vertici della Chiesa italiana dopo il 1995, a cui lo stesso Galli della Loggia è stato chiamato, in quanto laico aperto al confronto con i cattolici, a dare il suo contributo. E’ nel 1995 che la Cei, la Conferenza episcopale italiana, prende definitivamente congedo dall’idea dell’impegno unitario dei cattolici in politica marcando la distinzione tra Chiesa e politica e lanciando, al contempo, il “progetto culturale” nella terza edizione degli stati generali della Chiesa convocata a Palermo a fine novembre. Convegno a cui Galli fu autorevolmente invitato come relatore. Sorge qui quella che Sandro Magister ha chiamato, con formula efficace, la “Chiesa extraparlamentare”, la Chiesa che non ha più bisogno di intermediari per parlare con il potere e che si rivolge direttamente ai suoi rappresentanti attraverso il progetto culturale, cioè un insieme di valori non negoziabili che ruotano attorno al diritto alla vita, al rifiuto dell’eutanasia, alla forma del matrimonio, ecc. La sponda etica diviene il terreno prepolitico – in realtà politico – per influenzare l’arco parlamentare, al di là delle appartenenze di destra o di sinistra.
Questo progetto funziona nel senso paolino del katechon, di un potere che, in questo caso, trattiene dagli effetti negativi della secolarizzazione. Dimostra invece i suoi limiti nel suo verticalismo e nel suo intellettualismo. La Chiesa extraparlamentare, in cui lo spazio culturale è gestito dalla Cei, non ha più bisogno dei movimenti o delle associazioni che, dopo il 1989, hanno assolto il loro compito storico di contenimento del comunismo. Essa promuove il suo confronto da potere a potere. La dialettica culturale è intermediaria tra poteri. Le conseguenze, da parte ecclesiale, sono un inevitabile clericalismo, una pressione di tipo lobbistico sul parlamento, una certa astrattezza dei contenuti, validi in sé ma disancorati dagli esempi di socialità e di vita espressi nel mondo reale. E’ per questo che il progetto culturale degli anni ’90, con tutti i suoi meriti, è rimasto elitario e non ha contribuito ad un processo di maturazione intellettuale delle giovani generazioni dei cattolici. Selezionati per la loro componente “dialettica”, rispetto al clima dominante avverso, i valori presi in considerazione non hanno consentito ai cattolici di uscire dal “maso chiuso”, denunciato da Galli in un precedente articolo sul “Corriere”, dalla tensione tra identità e risentimento. Una tensione che si scioglie, di fatto, con l’accettazione pratica del mondo secolarizzato, rifiutato sul piano ideale.
Se questo è il nodo – la separazione tra idealità e storia che attraversa tutta l’era berlusconiana – l’uscita dal maso si presenta tutt’altro che semplice o immediata. Essa richiede da un lato un pensiero cattolico della modernità capace di andare al di là dell’alternativa tra accettazione acritica e semplice rifiuto, progressismo e tradizionalismo reazionario. L’incontro auspicato da Galli, tra cattolici e laici, richiede questo livello. D’altra parte il pensiero cattolico non può limitarsi, come sembra pensare Galli, ad essere il semplice supporto di una politica di centro-destra in crisi e delle disfunzioni dello Stato. La dottrina sociale cristiana, ingiustamente ritenuta da Galli evanescente nei suoi contenuti, consente di dare espressione pubblica a forme di vita associata esistenti, a valori di solidarietà dimenticati, tali da poter avere il significato di modelli. Modelli che interpellano l’intero quadro politico del Paese. In questo l’intuizione della Cei, nel 1995, era giusta. Il suo limite era nel proporre un progetto culturale calato dall’alto invece che proporsi come riconoscimento del positivo esistente, tale da raggiungere una dignità culturale e politica valida per tutti e non solo per i cristiani.