Maroni for president. In questo week-end, l’esito dei congressi delle due uniche vere roccaforti della Lega, Lombardia e Veneto, chiude la tormentata e ingloriosa fase dell’ammaina-Bossi. E dà all’ex ministro dell’Interno il lasciapassare per la successione, che verrà ratificata nell’assise federale in agenda tra un mese. Che fosse lui l’unica figura in grado di raccogliere un’eredità così colpevolmente dispersa, d’altra parte, non c’erano dubbi: nel coro di desolanti “signorsì” che ha accompagnato l’ormai ex Lider Maximo del Carroccio nei lunghi anni dopo la malattia che l’aveva colpito, la sua è stata l’unica voce che sia pur timidamente ha provato a contestare la deriva subìta dal movimento. Negli altri presunti capetti ha dominato la pratica del “servo encomio” che con tutta evidenza accomuna la rivendicata Padania di oggi ai suoi antenati dei tempi di Manzoni. Qualcuno dei quali ne ha approfittato pure per impinguarsi il patrimonio personale.
I due congressi del Lombardo-Veneto sono andati secondo copione. Ha vinto passeggiando a Bergamo Salvini, mentre al suo sfidante Monti va reso l’onore delle armi per la schiettezza e il coraggio con cui è sceso in campo pur sapendo di essere battuto.
Ha vinto con minor margine a Padova Tosi, dovendo peraltro far fronte a un’opposizione interna più agguerrita, anche se schierata dietro a un candidato di spessore decisamente più basso come Bitonci. Il quale fa quanto meno sorridere quando accusa il sindaco Verona di protagonismo, esercizio al quale egli si dedica con grande fervore da sempre. E fa proprio ridere quando come cavallo di battaglia rivendica l’automomia del Veneto dalla Lombardia: cosa che fino all’altro giorno veniva bollata come suprema eresìa dal segretario fino all’ultimo militante. Molto più efficace sarebbe stata l’alternativa proposta da Toni Da Re (indotto a ritirarsi), che da segretario di Treviso aveva saputo portare la sua provincia a essere la più leghista d’Italia, con quasi il 50% dei voti.
Ma il difficile comincia adesso. Pur forte di un larghissimo controllo del movimento, Maroni si prepara a prenderlo in mano nel momento peggiore. Alle amministrative di maggio, la Lega ha tenuto solo 2 dei 12 Comuni in cui governava. Ha subìto un tracollo in percentuali, e ancor più in voti assoluti. I sondaggi la danno in caduta libera. Il concomitante sfacelo del centrodestra le fa venir meno la sponda dell’alleato grazie al quale negli ultimi dodici anni aveva ottenuto posizioni importanti di governo, al centro come in periferia.
Moltissimi suoi militanti sono disgustati dal nauseabondo quadro emerso dietro le quinte di via Bellerio. Maroni dovrà remare duro per rimontare la corrente. Cominciando, nel congresso federale, a cambiare le regole, ma anche i comportamenti che hanno assegnato un potere assoluto al Capo. Riorganizzando e rimotivando la periferia. Soprattutto, mettendo a punto un programma di cui nei congressi regionali non si è sentito il minimo accenno. Di dichiarato c’è solo l’obiettivo: diventare il partito di riferimento del Nord. Che è come dire, oggi, di voler andare in cima all’Everest in t-shirt e scarpette da ginnastica.
Malgrado lo sfacelo non del cerchio, ma del circo Bossi, la Lega ha ancora molte risorse al proprio interno, cominciando da una rete di sindaci e amministratori locali che tanti elettori anche non leghisti hanno imparato ad apprezzare in questi anni. Dopo oltre vent’anni di proclami seguiti da altrettanti fallimenti dell’Uomo Solo Al Comando, è tempo di mandare in rottamazione tutto il folklore a base di ampolle, padanie, secessioni, elmi con le corna e grida scomposte; e mettersi a lavorare per dare risposte vere a quella questione settentrionale che tutti i partiti, Carroccio compreso, hanno fin qui colpevolmente ignorato. Altrimenti, bene che vada il futuro della Lega sarà la versione seconda Repubblica del vecchio Psdi della prima. Non proprio il massimo, decisamente.