L’idea di un’Assemblea Costituente, espressa nei giorni scorsi da Marcello Pera, suscita in me un sentimento ambivalente. D’istinto l’accolgo come lo strenuo tentativo di uscire dallo stallo in cui si trovano politica e istituzioni nel nostro Paese. Tuttavia, proprio riflettendo su questo stallo, mi vengono molti dubbi circa la sua opportunità. Mi rendo ben conto che, di fronte al degrado della nostra Costituzione “materiale”, uno scossone “formale” potrebbe essere salutare. Temo tuttavia che, nel momento in cui dovessimo aprire una nuova fase costituente, i condizionamenti “materiali” potrebbero essere così gravosi, da rendere assai problematica la riscrittura di una buona Costituzione “formale”. Inoltre, anche ammesso che ci si riesca, al punto in cui siamo dubito assai che tale Costituzione riuscirebbe a cambiare le consuetudini, diciamo pure, lo statuto “materiale”, della nostra cultura e della nostra prassi politica.
Ma, si dirà, un certo margine di incertezza è tipico di ogni fase costituente; non ha senso opporsi semplicemente perché le cose potrebbero non andare per il verso giusto. Da che mondo è mondo, sono proprio le “forme” che spesso incidono sulla “sostanza”. Considerato dunque che tutti siamo più o meno d’accordo sulla necessità di cambiare, non è meglio aprire apertamente una fase nuova?
In un certo senso sì. Ma, almeno per me, c’è anche un “ma”. Anzitutto stiamo attraversando un periodo di grande frammentazione politica; le culture politiche che hanno scritto l’attuale Costituzione versano tutte in una condizione di grave affanno; un’aura sempre più tecnocratica sta prendendo il sopravvento sulla politica, mentre i sondaggi parlano di un consenso crescente per movimenti politici, certamente “nuovi”, ma forse non abbastanza radicati nella realtà vera del Paese. In questa situazione, vedrei molto meglio qualche segno di concerta vitalità politica da parte del Parlamento democraticamente eletto, che l’idea di andare ad eleggere una nuova Assemblea Costituente.
Ci offrano piuttosto, i nostri parlamentari, qualche seria proposta di riforma, anche costituzionale, che renda il Paese più governabile; ci dicano che cosa vogliono fare per la scuola, l’università o per la giustizia; ci mostrino che la dialettica politica si svolge ancora sullo sfondo di un’idea del bene comune e non del semplice (cieco!) tornaconto di parte; ci dicano altresì che la libertà e la responsabilità sono forse i beni civici più preziosi, che non possono essere sterilizzati da leggi e leggine che hanno il solo scopo di favorire questa o quella cricca, anziché il bene di tutti.
Non tutto mi piace dell’attuale Costituzione, sia chiaro. Certamente è anche per colpa di certe sue inadeguatezze “formali” che si sono consolidate certe deleterie pratiche “materiali”, un costume, che sembra spesso avere poco a che fare con una liberaldemocrazia e molto invece con certi Paesi del vecchio socialismo reale. Eppure, in questo momento, proprio se vogliamo cambiarla, credo che sia meglio cercare di riappropriarci, in teoria e in pratica, di alcuni suoi principi fondamentali che, almeno “formalmente”, essa contiene (si pensi alla divisione dei poteri), e che, “materialmente”, abbiamo forse dimenticato, piuttosto che arrischiare una nuova Assemblea Costituente.