E chi c’è oggi in Italia, in Europa, che può negare la gravità, la complessità della situazione economica e finanziaria mondiale? Chi può azzardare oggi una via d’uscita, una luce al fondo di questo tunnel che è rappresentato da una crisi epocale? Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, invita continuamente alla coesione del Paese, a uno sforzo comune, corale per uscire da questo momento. Tutto questo richiede una capacità di governare con una sensibilità superiore rispetto ai momenti normali. Perché la crisi sta mettendo in ginocchio, sta provocando sacrifici pesanti alle famiglie e alle imprese. E tutto questo richiede la spiegazione di un percorso durissimo che punti a dei risultati e pure contenga un filo di speranza. Significa sapere misurare i toni e alternare l’indicazione degli sforzi necessari con dei traguardi da raggiungere. Ascoltando anche il Paese reale, quello fatto dalle famiglie, dalle imprese e dai sindacati. Giorgio Benvenuto, attualmente Presidente della Fondazione Buozzi, ma leader storico della Uil e del sindacato italiano, era presente all’assemblea dell’Abi (Associazione bancaria italiana) e pur mantenendo stima, rispetto per l’operato di Mario Monti, ritiene che i toni che adopera il “presidente dei tecnici” siano qualche volte dettati un po’ dal carattere piuttosto permaloso, un po’ da una sua visione di liberale con una venatura un poco autoritaria: «Io sono dispiaciuto per i toni che qualche volta usa Mario Monti. Dispiaciuto perché rischia di perdere una grande occasione. A mio avviso dovrebbe dimostrare che ha voglia di ascoltare anche il mondo italiano che produce, quello delle piccole e medie aziende, quello dei sindacati, in fondo anche quello dell’Abi, a cui non ha risparmiato qualche frecciata».



Sembra quasi che in alcuni momenti non abbia fiducia delle parti sociali, di quello che hanno desiderio di dirgli. Non trova che l’impressione che sta offrendo Monti sia quella soprattutto di comunicare delle decisioni, quelle del governo che presiede?

Effettivamente, Monti a volte, per ragioni probabilmente di sua competenza specifica in una situazione come quella in cui viviamo, dà proprio l’impressione di voler comunicare quello che ha deciso. Sembra quasi che le convocazioni e i confronti con le parti sociali siano un rito che deve affrontare ma che non sfiorino neppure le sue idee.



Forse è un problema culturale di Monti.

È probabile, ma in questo momento è controproducente, anche per tutto il Paese. Anche questo suo atteggiamento è rischioso. Allora, lasciamo perdere qualche frecciata all’Abi, ma personalmente non avrei improntato il discorso sul “percorso di guerra” da affrontare. Poi Monti dà proprio l’impressione di essere irritato con Confindustria, con la Confindustria di Giorgio Squinzi, che è un grande imprenditore e che rappresenta bene il sistema produttivo italiano. Sia io che lei siamo abbastanza grandi per comprendere che le frasi, interpretate bene o male, nascondono forse un disagio abbastanza forte. Infine, c’è stato questo attacco alla concertazione a cui ha risposto Susanna Camusso in modo molto secco. Ma a quale concertazione si riferisca Monti non l’ho proprio capito.



La politica di concertazione in Italia diventa spesso un luogo comune, che viene scambiata per consociativismo.

Infatti. Ma è un errore. Era forse concertazione quella di quando si votò sulla scala mobile? Non mi pare proprio. C’era forse concertazione ai tempi del compromesso storico? La concertazione, se si guarda bene, si realizza veramente negli anni Novanta, con Carlo Azeglio Ciampi. E poi, non per difendere una storia personale, ma il sindacato italiano una sua funzione democratica, di difesa democratica, in questo Paese l’ha avuta. Ma ce le ricordiamo le assemblee sindacali quando in Italia c’era il terrorismo? Chi andava a spiegare nelle assemblee di fabbrica che bisognava isolare e denunciare i terroristi? Qui sembra che ogni tanto, forse per il suo carattere o per la sua impostazione culturale, Monti abbia quasi voglia di mettere le dita negli occhi a qualcuno. E l’atteggiamento verso il sindacato non è affatto positivo. Sembra quasi che si parli male del sindacato italiano, perché questo fa piacere in sede europea.

 

Lei sostiene in sostanza che un dialogo con le forze sociali deve essere sempre aperto e che questo dialogo è importante per una democrazia come quella italiana.

 

Questo dialogo, lo ripeto, non significa arrivare a un consociativismo che poi diventa inconcludente, che blocca tutto e che non fa cambiare nulla. Ma questo dialogo, a cui poi devono seguire delle scelte, significa governare un Paese, soprattutto in un momento come questo, carico di incognite, di grande incertezza, di dubbi, di smarrimento, di nuovi rischi che si affacciano all’orizzonte sulla situazione europea e nella finanza mondiale. Prima parlavo dei sindacati, dell’atteggiamento verso i sindacati. Ma guardi che anche questa riforma del lavoro, così come è stata realizzata, mette in difficoltà il sistema produttivo delle piccole e medie aziende. Tenere un dialogo aperto sarebbe importante, molto importante. Altrimenti sembra che i cittadini italiani, le famiglie italiane, le imprese e i sindacati debbano attenersi al concetto: non disturbare il manovratore. Non è con questo spirito che si affronta una crisi di questo tipo.

 

(Gianluigi Da Rold)