«Si fa una nuova Costituente quando si dichiara morta la vecchia Costituzione, o in seguito ad un evento rivoluzionario o allo smantellamento dello Stato precedente». Per questo, secondo Paolo Pombeni, politologo, editorialista del Messaggero, l’ipotesi è da scartare. «Allora» dice Pombeni a IlSussidiario.net «i vincitori fanno eleggere un corpo che stabilizza il cambio di regime dando al Paese una nuova Carta fondamentale. Ma non mi pare che sia il nostro caso. Vedrei molto meglio una Commissione speciale per la riforma costituzionale».



È l’ipotesi avanzata da Luciano Violante.

È l’ipotesi più plausibile e realistica. Ciò di cui abbiamo bisogno non è rifare le basi costituzionali dello Stato, ma riadattare alle mutate esigente alcuni meccanismi di funzionamento di questo Stato; in un quadro di valori e di principi – come sono quelli che si trovano nella prima parte della nostra Carta – che rimangono a mio giudizio ottimi.



Perché secondo lei il progetto di una nuova Costituente è improponibile?

Guardi, sono disponibile a comprenderne le ragioni: superare lo stallo, la crisi, i giochini improduttivi della politica politicante con un atto tranchant come quello di ripartire da zero. Ma a mio avviso, per le ragioni che le dicevo, non ne esiste lo spazio. Possiamo e dobbiamo fare una revisione dei meccanismi di funzionamento, questo sì. Una commissione può fare egregiamente questo lavoro. Il progetto diventerebbe comunque oggetto di confronto con l’opinione pubblica e col Parlamento.

Marcello Pera dice che il popolo italiano, «nel bel mezzo della sua crisi più grave dal dopoguerra», avrebbe bisogno di «un nuovo patto per stare assieme e darsi una identità». Di quale patto abbiamo bisogno secondo lei?



A mio modo di vedere dev’essere un patto di condivisione e di gestione dei nostri valori fondanti. «Fondanti» vuol dire che ancora fondano il nostro vivere civile. Prendiamo una voce a caso, il bipolarismo. Vogliamo una vera alternanza? Occorre che chi vince venga accettato anche da chi perde. Ora chi vince si sente legittimato solo da quelli che lo hanno votato, mentre chi perde  si ritiene truffato e non riconosce il governo espressione della parte vincente. Vuol dire che manca il riconoscimento dell’interesse generale come prevalente sugli interessi corporativi o individuali. Non mi sembrano le premesse migliori per fare una Costituente.

Allora dove sta il problema?

Nella debolezza del Paese. Perché è vero che i partiti sono debolissimi; ma quand’è che sono stati forti? Quando hanno potuto «succhiare» dal Paese le sue idee e le sue elaborazioni migliori. Oggi dietro la carenza di idee della politica c’è la società dei talk show.

Ugo De Siervo, su La Stampa, ha affermato che il nostro sistema di revisione costituzionale è piuttosto agevole e sarebbe la via più facile da intraprendere per migliorare la Costituzione vigente.

In realtà non è così semplice, anzi è comprensibilmente complicato, perché quel meccanismo è stato pensato contro eventuali colpi di mano di stampo autoritario. D’altra parte non si può procedere per continue toppe. Occorre scegliere la strada che allo stato delle cose ci può assicurare maggiore organicità, per questo l’ipotesi di una commissione esterna mi sembra la più sensata. Non difetterebbe di visione, sarebbe «altra» dalla politica politicante, esprimerebbe il Paese in cui ci troviamo e non quello che sognamo.

L’Assemblea costituente del ’46 era composta da persone di grande cultura istituzionale. Quel momento è davvero irripetibile?

Su questo punto occorre fare attenzione a non costruire mitologie. Non dimentichiamo che a lavorare alla Costituzione fu un gruppo di 75 persone, le altre facevano numero e votavano secondo le indicazioni dei partiti. Bisogna poi tener presente che nel gruppo dei 75 il nucleo «pensante» era in realtà ancora più ristretto, volendo essere generosi una trentina di persone al massimo. I partiti ebbero la lungimiranza di lasciare spazio a questo nucleo di persone particolarmente capaci di visione generale. Poi il tempo ha confermato le loro scelte.

Non crede che oggi manchi quasi del tutto questa capacità di vedere (e fare) l’interesse generale?

Certamente non c’è negli attuali gruppi parlamentari, ma non era diffusissima neanche allora. Il fatto che fossero stati eletti uomini come Dossetti, la Pira, Moro, Fanfani, Togliatti, Basso, Mortati dipese anche dal fatto che per 30 anni non si era fatta politica. Ovvio che per molte di queste personalità fare politica volesse dire ripensare la politica. Questa circostanza mise in luce le loro grandi qualità favorendo la germinazione di grandi cose.

E oggi?

Nella società civile c’è ancora gente che pensa − e fa − in grande, anzi senza di essa potremmo chiudere il Paese. Come questa classe politica ha deciso di mettersi nelle mani di Mario Monti perché si è accorta di non farcela, allo stesso modo potrebbe risolversi ad un cambio di passo nei modi che le ho detto.

È addirittura all’ipotesi un prolungamento dell’impegno di Monti, anche se l’interessato ha detto di non volersi candidare nel 2013.

In questo momento la classe politica sembra cercare tutte le strade per non confrontarsi con il Paese reale: è terrorizzata dalla prospettiva di andare a elezioni in cui la gente voterebbe con l’idea che se i politici non ci fossero, avrebbe da guadagnarci. Ma è qui che sbaglia, perché per rilanciare la sua centralità ha bisogno di questo rapporto esterno. Deve recuperarlo. Da sola, infatti, non ce la farà mai: è ormai senza fiato.