E’ risaputo che stiamo vivendo in un periodo di schematismo e pressapochismo, due metodi che producono una subcultura con cui affrontare la straordinaria complessità della realtà. In Italia poi dilaga letteralmente, soprattutto dall’ultimo dopoguerra, una subcultura ulteriore: la semplificazione storica, o addirittura la distorsione della storia, a uso ideologico o di parte politica, per suggerire esempi di percorsi virtuosi soprattutto nelle grandi scelte che una società e le sue istituzioni devono compiere. Su La Repubblica del 15 luglio, come ogni domenica, si è esibito nella sua “predica” il fondatore del giornale, Eugenio Scalfari. Ora, Scalfari è una sorta di “presidente ad honorem” dell’areopago del giornalismo italiano. Il suo fiuto editoriale è fuori discussione, basta pensare al successo de L’Espresso e de La Repubblica, e anche alla sua lunga esperienza cronistica. Cominciò da giovanissimo a scrivere sui giornali, su “Roma fascista”, dove divenne più tardi caporedattore, e su “Nuovo Occidente”. Questi ultimi sono solo “peccati veniali” di una gioventù confusa e inevitabilmente concitata per il contesto storico-politico. Ma sono stati riscattati da una lunga milizia democratica. Proprio per questo suo ampio e variegato passato non ci si aspetterebbe mai che una personalità del calibro di Scalfari cadesse in alcuni errori storici di un passato più recente, più esattamente zoppicasse in uno schematismo dilettantesco, mettendo sullo stesso piano, nel suo ultimo articolo domenicale, la linea di Luciano Lama in campo sindacale e quella di Enrico Berlinguer sul terreno più politico con quella che era chiamata “l’eresia” del loro compagno comunista Giorgio Amendola. Probabilmente a Scalfari è sfuggito il 1979 (eppure già da tre anni guidava La Repubblica). Probabilmente ha avuto un vuoto di memoria. Infatti, tutto il 1979 è contrassegnato, nella storia del Pci (su cui qualcuno dovrebbe essere meno reticente) sulla contrapposizione tra Amendola da un lato contro Lama e contro Berlinguer dal’altro, al punto che il figlio di Giovanni Amendola pensò addirittura alle dimissioni dalla direzione del Pci (c’è anche chi sostiene che le abbia scritte), mentre onorava la sua cinquantennale militanza. Si era iscritto nel novembre del 1929, dopo la grande crisi di Wall Street. Non aveva mai collaborato con settimanali del Guf, ma faceva di professione “il rivoluzionario”, in clandestinità. Che cosa succede in quel 1979? Il 9 novembre del 1979 Giorgio Amendola scrive un articolo su “Rinascita” che getta letteralmente nel panico e nel furore sia il sindacato comunista, la Cgil, che lo stesso Pci. Amendola aveva suggerito come titolo “La lezione della Fiat”, ma gli fu modificato con un “Interrogativi sul ‘caso’ Fiat”. Che cosa dice sostanzialmente Amendola? Ripete le sue critiche durissime contro il sindacato: “Per non estraniarsi dai cosiddetti movimenti…si è finiti per giustificare i nuovi atti di teppismo, e di violenza nelle fabbriche”. Ripete le sue critiche severe al Pci: “Per la preminente preoccupazione di non essere criticati da sinistra si sono lasciate indisturbate in seno al partito zone di persistente settarismo”. La replica di Lama è furente: “Non posso accettare il giudizio secondo il quale il sindacato si sarebbe impegnato poco nella lotta contro terrorismo e violenza”. Quello di Berlinguer è addirittura sprezzante e di stampo cominternista: “Amendola non conosce l’abc del marxismo”. Si va a un comitato centrale, il 15 novembre 1979, dove l’intero “parlamentino” del Pci apre un “caso Amendola” dopo l’articolo su “Rinascita”. Berlinguer replica alle tesi di Amendola sulla riduzione dell’inflazione e sull’aumento della produttività, in questo modo: “Che cosa è questo, in definitiva, se non l’obiettivo del ripristino di un sistema di equilibri economici e sociali che appartengono al passato?”. Amendola in quel momento ha 72 anni, è gravemente ammalato, ma replica con la sua indomita fierezza: “Si dice che io sia isolato. Per me questo è un grande complimento. Io sono sempre stato isolato e ho sempre sventato ogni tentativo di imprigionarmi in una corrente”. 



Amendola morirà il 5 giugno 1980, ma fino agli ultimi mesi della sua vita continuerà, a testa alta, la sua polemica rovente, ricevendo da Berlinguer e compagni battute al curaro: “Strano il suo filosovietismo in Afghanistan e nello stesso tempo il suo appoggio a un rapporto privilegiato con Craxi”. Come Scalfari riesca a riportare come esempio di coerente unità di linea politica Lama, Amendola e Berlinguer sullo stesso piano, in quegli anni, è un autentico mistero giornalistico italiano. Ma il fondatore de La Repubblica sembra ancora più smemorato quando cita due uomini di sinistra che, recentemente, hanno indicato, a suo parere, una realistica svolta a sinistra di livello europeo: Alfredo Reichlin e Alberto Asor Rosa. Oggi si dichiarano riformisti e addirittura riformisti radicali. I riferimenti prima a Giorgio Amendola e poi ai due “vecchi” esponenti del Pci, farebbero pensare a una contiguità di pensiero, indurrebbero i lettori a vedere in questi due signori dei nuovi discepoli del pensiero di Amendola. In questo caso, consigliamo a Scalfari di andarsi a rileggere un libro di Nello Ajello ( un ex condirettore dell’Espresso) “Il lungo addio”, dove anche uno scolaro di prima elementare scoprirebbe che scambiare Reichlin e Asor Rosa, non come affini ma solo “lontani parenti” di Giorgio Amendola, fin dal 1964, sarebbe come sostenere che Massimo Moratti è un irruente tifoso della Juventus o del Milan. Le rivisitazioni storiche possono essere anche cosa di poco conto, visto l’andazzo degli studi storici italiani e il florilegio di luoghi comuni che circola per il Belpaese. Ma in periodi difficili come questi, occorre forse essere più precisi e non ridurre il dibattito politico e storico “un tant al toc”, come dicono a Milano. Sappiamo tutti le preferenze politiche e storiche di Scalfari e non abbiamo nulla da contestargli. Riferendosi al passato, lui pensa a “Giustizia e libertà”, probabilmente non dei fratelli Rosselli, ma il motto del Partito d’azione. Pensa a figure come quella di Norberto Bobbio. Anche in questo caso, si risparmi citazioni di Amendola, perché il grande “eretico” comunista diceva: “Bobbio dimostra di avere sempre una concezione aristocratica della lotta politica e di non conoscere le ragioni consapevoli che guidano la lotta politica e ideale delle forze popolari”. Amendola era certamente un personaggio irruente, spesso “sopra le righe”. Per questa ragione risparmiamo a Scalfari i giudizi che stilava, in taluni momenti, su La Repubblica, il giornale che ha fondato e condotto con successo. Per tutte queste ragioni, Scalfari eviti riferimenti storici approssimativi e lasci riposare in pace Giorgio Amendola.

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