L’autunno del patriarca si conclude in toni ben lontani da quelli del protagonista del celebre romanzo di Garçia Marquez. Dopo l’ultraventennale stagione da padrone assoluto della Lega da lui stesso fondata, Bossi esce di scena nel congresso di Assago con le consuete pantomime: distribuendo epiteti di “imbecille”, ribaltando su Roma le sue manchevolezze e le due colpe e quelle dei suoi famigli, spiegando a dritta e a manca che tanto tra un anno lui ritornerà. Ognuno sceglie come uscire di scena; lui ha puntato sul peggiore. Che è comunque un dettaglio marginale: da ieri la Lega gira pagina, e imbocca il nuovo corso che Maroni ha battezzato con l’etichetta molto “in” del 2.0.



Il problema è capire come intende arrivarci.  All’interno, le nuove regole sembrano abbastanza chiare: niente più despoti assoluti che fanno e disfano a loro piacimento, assecondati da compiacenti cortigiani; una squadra costruita attorno a Maroni con il compito primario di presidiare il territorio e riconquistare il tanto terreno perduto; potere meglio bilanciato tra le diverse realtà territoriali, partendo dal Veneto dove il Carroccio ha la posizione più forte, anziché far ruotare tutto attorno ai due conventi lombardi di Varese e Bergamo, l’un contro l’altro armato. La questione diventa molto più complessa se si guarda all’esterno. Dal congresso sono arrivate indicazioni di tagliare i ponti con Roma; ma è una strada che può portare a recuperare un po’ di consensi dei fedelissimi, non certo quelli del Nord di cui pure Maroni dice di voler diventare punto di riferimento. Le decisioni che contano, per le riforme che contano, si prendono a Roma; ed è lì che bisogna esserci, con alleanze in cui stare da protagonisti, non da subalterni come ha fatto negli ultimi due anni la Lega di Bossi.



Al feticcio della Padania, anche ieri ribadito ad Assago, la stragrande maggioranza del Nord non crede proprio. Anche quando il Carroccio ha toccato il suo massimo storico, con il 24-25 per cento dei consensi dell’elettorato settentrionale, tre quarti dei cittadini hanno dimostrato di volere tutt’altro; figuriamoci adesso che la Lega è crollata in modo verticale in tutti i sondaggi, compresa la roccaforte veneta, dove viene data all’11 rispetto al 35 di due anni fa. Il Nord vuole uno Stato diverso, moderno, efficiente, con meno tasse, meno burocrazia, più servizi, più infrastrutture cominciando da quelle immateriali come la banda larga. Premia amministratori efficienti come i Fontana e i Tosi, non a caso due capisaldi della squadra di Maroni; ai Borghezio vari che fanno rullare i tamburi dell’indipendenza riservano un atteggiamento compreso tra l’indifferenza e la sghignazzata.



Qualcosa si sta muovendo dal profondo Veneto, dove un gruppo di sindaci e amministratori locali rilancia la battaglia del federalismo dal basso, conquistato a piccoli passi, facendo leva sulla legislazione vigente a partire dal nuovo titolo V della Costituzione che concede forme di autonomia accentuate alle Regioni che ne facciano richiesta. Con le sue bordate, Bossi non ha portato a casa niente, anzi ha via via rimpicciolito gli obiettivi: dalla secessione al federalismo alla devolution; comunque zero in termini di risultati concreti. Rimane dunque molto da fare, ma le premesse ci sono, perché proprio nel territorio decine di sindaci leghisti hanno dimostrato il fatto loro, con grande concretezza, infischiandosene dei tanti slogan dettati da via Bellerio e guardando ai bisogni reali delle persone. Rimane infine il nodo delle alleanze, perché da sola la Lega non arriverà mai al 51 per cento: c’è riuscita solo la corazzata Dc e per una breve stagione, figuriamoci gli sgangherati partiti di oggi…

Su tutto aleggia comunque il rischio di colpi di coda dei talebani di Bossi, che si vedono di colpo tagliati fuori. E le reazioni, più che dello stesso Bossi, di sua moglie Manuela Marrone, epicentro del cerchio magico, fin qui rimasta assolutamente silenziosa. Non è persona da mettersela via. Quindi, come dicono i piloti di aereo, attenti a ore dodici.