Non c’è parola che non si possa condividere nell’intervento di Giorgio Vittadini, se scevri da interessi di parte o – come dice qualche lettore nordico – di “cadrega”, altrimenti detta sedia. Credo che la contrapposizione sia il pane dei giornali, più che il sale della politica. La politica è in definitiva, pur nelle diverse visioni, l’arte di convincere la maggioranza, e se necessario o utile anche più della maggioranza stessa. L’arte di mettere assieme insomma, non di far scannare le persone fra loro per tenere in piedi la propria bottega. Sono i giornali, a ben vedere, che si fregano invece le mani quando i politici se le suonano di santa ragione, ma di questi tempi – fra i cittadini – non vedo tutta questa voglia di dividersi fra seguaci di Bersani o Berlusconi, vedo semmai tanta trepidazione per le sorti dell’Italia e la speranza che qualcuno di buona volontà ci metta una pezza, se siamo in tempo.



Ma qualche ulteriore interrogativo si pone, cui tenteremo di dare una risposta. Dopo «la fine del bipolarismo della seconda Repubblica, rissoso e inconcludente», registrata da Vittadini e sancita dai fatti, il «coraggio di ricominciare» potrà scaturire ora attraverso un diverso bipolarismo o – visto che non si tratta di un dogma di fede – si può addirittura ripensare una formula che ha dato così pessima prova di sé?



Il passo a parlare di sistemi politici e di legge elettorale, è breve, anche se – sono certo – scatta subito in voi quasi “in automatico” la voglia di cliccare sul mouse e passare oltre per l’astrattezza – presunta – del tema. Ma non è che quando uno sostiene che il fuorigioco è “di posizione” o “passivo” – faccio un esempio per gli appassionati di calcio – questi tecnicismi tolgano la voglia di parlare di pallone. Anzi, è proprio quando Biscardi parla di “moviola in campo” che si sublima la passione collettiva per lo sport nazionale.

Ecco il punto: la verità è che è andata smarrita negli anni la passione per il bene comune, ed è per questo, non per altro, che a parlare di sistemi politici e di legge elettorale viene l’orticaria a tutti. Poi però quando il Parlamento è ridotto come è ridotto, alla mercé dei 4-5 capi politici che hanno fatto le nomine, tutti sono pronti a lamentarsi. E il risultato è quello che vediamo: nessuno dei capi ha voglia di mollare. Non Berlusconi che torna, non Bossi che ancora minaccia di farlo.



Perché chi guida un partito, oltre a gestire la cassa in splendida solitudine, prende tutto e può premiare i fedeli con un seggio parlamentare. Per queste ragioni c’è da essere scettici sul fatto che questa legge elettorale (senza una clamorosa pressione dell’opinione pubblica) possa essere modificata da questi partiti politici che non hanno alcuna voglia di mettersi d’accordo e – alla fine della fiera – nemmeno di modificare un sistema che fa comodo a tutti. A tutti i padroni del vapore, almeno.

Ma torniamo al punto: se, fallito “questo” bipolarismo, se ne possa auspicare uno più mite e costruttivo o si possa anche pensare qualcosa d’altro. In altre parole: il centro ha titolo per scompaginare questo sistema e guidare una fase di cambiamento? Sì e no, dipende da chi è che cos’è. Il centro, oggi come oggi, significa Pier Ferdinando Casini. Il quale politicamente non ha sbagliato una mossa, è vero, ma poi – guardando in casa sua – il partito, l’area, che doveva essere l’incubatrice del cambiamento e di una nuova partecipazione, è caduto nello stesso errore che criticava, quello dell’«uomo solo al comando». Casini insomma ha di fatto smantellato il suo partito di signorotti delle poltrone e delle tessere, preferendo fare opinione da solo (puntando tutto su Twitter, tv e giornali) e così oggi si può permettere il lusso di attaccare la Sicilia «nominificio» che solo ieri era il suo serbatoio di voti.

Ma un altro partito non si capisce ancora come e con chi vorrà ri-fondarlo. Con Fini sì e no. Forse con Montezemolo, forse con Passera, forse con Riccardi. Solo ipotesi. Dipende tutto, ci risiamo, dalla legge elettorale. Ma se prendiamo per buona l’ipotesi (sciagurata) che si vada a votare alla fine con questa, possiamo provare a ipotizzare che cosa potrebbe accadere. Alla Camera oggi chi vince anche per un sol voto prende tutto e non c’è storia per gli altri, cosicché l’alleanza che si profila fra Bersani e Vendola non sembra superabile da un Pdl suicida che assiste supino al ritorno di Berlusconi alleato di una Lega ridotta al lumicino. Casini ha mille dubbi per sé ma sugli altri i conti li sa fare. Ecco perché definisce il ritorno di un governo Berlusconi «un film dell’orrore», chiudendo ogni ipotesi, rivelando di confidare invece «in un patto fra progressisti e moderati». «La frattura tra l’Udc e Silvio Berlusconi – aggiunge il leader centrista – è evidente e irreversibile».

Ma non credo a Casini e Bersani alleati già al voto, credo piuttosto che faranno una campagna elettorale a parlare bene di Monti e Napolitano senza morsicarsi reciprocamente, rivendicando – speriamo – che così l’Italia si sarà nel frattempo salvata, cosa purtroppo tutta da verificare. Poi, quando verrà fuori che al Senato, con il diverso sistema elettorale che di fatto non concede premi elettorali, il Pd da solo e neanche con Vendola (Di Pietro ormai si è tirato fuori da solo) non ce la fa, potrebbero teorizzare, come in effetti già fanno trapelare, un’alleanza fra due anime europeiste: popolari e socialisti.

Il vero nodo si pone, o si porrà, per i convinti assertori del Ppe costretti a convivere con un leader (Silvio Berlusconi) che si ricandida dopo aver teorizzato con un autorevole giornale americano l’uscita dall’euro. Parole irresponsabili, che nessuno dei suoi ha osato stigmatizzare, mentre milioni di italiani tirano la cinghia per tentare di rimanerci, nell’euro. Non è che il Pd, brilli, sia chiaro, ora ha ripreso puntuale a parlare di coppie gay, come se fosse la priorità. Ma non è pensabile di riproporre Berlusconi, non ci voleva l’Economist a ricordarlo.