Se escludiamo il repulisti primaverile, quella di domenica è stata la prima fase vera e propria della rifondazione leghista. Salvo qualche mugugno da parte di Bossi, che ha mal digerito il pensionamento, pare che tutto sia andato liscio. Maroni, infatti, è stato insignito della guida del partito. Come da programma, si dirà. Niente affatto: fino all’ultimo si è temuto l’agguato di fronde nostalgiche. Poi, la stragrande maggioranza dei 630 delegati presenti lo ha indicato come segretario federale. E adesso? Quale sarà il corso che la Lega assumerà sul fronte delle alleanze e dei contenuti programmatici? Lo abbiamo chiesto a Stefano Bruno Galli, politologo, docente di storia delle dottrine politiche all’Università statale di Milano, presidente di Eupolis Lombardia, e grande conoscitore del Carroccio.
Anzitutto, crede che il congresso di domenica abbia conferito a Maroni la legittimità sufficiente per governare il partito?
Maroni stesso ha fatto presente che non avrebbe mai accettato un incarico da segretario a mezzo servizio. Da questo punto di vista, direi che è uscito dal congresso vincente. La Lega, dopo le ultime vicende, necessitava di un progetto concreto e credibile. L’ex ministro dell’Interno lo ha saputo incarnare e illustrare, dando nuova linfa ai militanti e agli elettori. Certo, tra la Lega e il suo fondatore vi è sempre stata una completa sovrapposizione. Non aspettiamoci, quindi, che la nuova leadership sia altrettanto carismatica; come, d’altronde, accade in tutti i movimenti in cui al fondatore si avvicenda il successore. Sarà, tuttavia, capace di maggiore concretezza e prospettiva.
Bossi crede che si accontenterà della presidenza a vita? Qualcuno ha letto nelle sue polemiche di domenica il rischio di scissioni…
Cosa c’è nella sua testa può saperlo solo lui. Credo però che, dopo tutto quello che è successo, dovrà farsi da parte.
Come si caratterizzerà la nuova Lega?
Anzitutto, ci saranno cambiamenti sul piano interno. Si introdurranno processi di formazione e selezione della classe dirigente. Il partito, inoltre, si doterà di un codice etico. E di una comunicazione più efficace. Su quello esterno, invece, c’è uno schema di fondo incardinato sui due slogan scelti per le giornate congressuali. Sabato era “Per l’Europa dei Popoli” e domenica “Prima il Nord”.
Concretamente, come si declinano in un progetto politico?
I governatori delle regioni settentrionali dovranno farsi carico di rappresentare il nord Italia in Europa, cosa che Monti non sta facendo. E, tessendo relazioni istituzionali con le grandi realtà regionali europee, dovranno contribuire alla fondazione dell’Europa dei popoli.
Ovvero?
Si tratta di una cosa ben diversa dalla revisione dell’attuale Unione europea, consistente in un super-Stato (o in sovra- Stato) di cui fanno parte tutti gli Stati nazionali. E’ un concetto che ha una tradizione teorico-dottrinale molto consolidata e che affonda le sue radici in Ordre Nouveau, una rivista cattolica francese degli Anni ’30, attorno alle quale gravitavano intellettuali quali Denis de Rougemont o Alexandre Marc. Essi teorizzavano la fondazione di un’Europa fondata sull’unione delle grandi unità regionali tradizionali del Vecchio Continente.
Il ragionamento portato alle estreme conseguenze sembra comportare la dissoluzione degli Stati
Infatti, è così. La Storia, per effetto dei processi insiti nella globalizzazione – che possono assumere le forme più svariate, quali le realtà sovranazionali come l’Ue, i movimenti d’opinione o il terrorismo internazionale – sta andando incontro ad una progressiva crisi dei vecchi Stati nazionali. La loro sovranità viene sempre più erosa.
Ritirarsi da Roma come ha ipotizzato Maroni sarebbe funzionale ad un tale progetto?
Certamente. Accelererebbe il processo di dissoluzione dello Stato e, al contempo, la fondazione dell’Europa dei popoli.
In che modo la Lega, semplicemente abbandonando il Parlamento, potrebbe condizionare il governo?
Assumendo l’egemonia della “questione settentrionale”, quella differenza specifica, in termini soprattutto economici, dal resto d’Italia; dovrebbe diventare quel grande partito di raccolta in grado di intercettare consensi in maniera trasversale rispetto agli orientamenti ideologici ed etici, per rappresentare la difesa degli interessi territoriali sul modello dei partiti autonomisti classici. A quel punto, nel momento in cui – ad esempio – le centinaia di sindaci leghisti dovessero decidere di violare il Patto di stabilità (la revisione del quale è stata definita da Maroni la madre di tutte le battaglie), lo Stato si troverebbe di fronte una massa critica tale da dover scendere a patti.
Se la Lega, nel 2013, decidesse, invece, di candidarsi alle politiche, con chi si alleerebbe?
Credo che punterebbe ad avere una pattuglia parlamentare che potrebbe mettersi di traverso ogni qualvolta il nord fosse sul punto di essere danneggiato dal governo di turno. Ma andrebbe da sola.
Non potrà fare altrettanto nelle Regioni, se vorrà governarle. Continuerà ad essere alleata con il Pdl o potrebbe aprire al Pd?
E’ presto per parlarne. In ogni caso, per il momento, non vedo alternative all’alleanza con il Pdl. Per il semplice fatto che, laddove governano insieme, l’alleanza funziona. Anche in Lombardia. Dove il fango mediatico gettato sulle vicende giudiziarie di Formigoni rischia di oscurare un modello politico e amministrativo iper-efficiente.
E’ stato Formigoni stesso a ipotizzare, per il 2015, un governatore lombardo leghista
Non conosco le intenzioni di Maroni. Se, tuttavia, il neosegretario della Lega diventasse il governatore della Regione in cui il movimento è nato, questo rappresenterebbe un messaggio politico estremamente significativo. Anche perché è proprio in Lombardia si concentra la questione settentrionale.
(Paolo Nessi)