Che la Rai fosse un malato grave non lo ha scoperto certo Sergio Rizzo con il suo articolo su il Corriere della Sera di ieri. E’ solo l’ennesimo atto d’accusa nei confronti del pachiderma di viale Mazzini, ma racconta solamente una parte della verità di un’azienda che ha chiuso il bilancio 2011 con uno stiracchiatissimo utile di poco più di 4 milioni di euro dopo cinque anni di rosso, ma con un indebitamento in crescita e giunto a fine 2011 a 272 milioni.
Vero è che la Rai è sommersa dalle cause di lavoro e che un dipendente su dieci ricorre per ragioni differenti dal giudice. Si tratta di un’eredità che viene da lontano, perché se si decide di fare causa vuol dire che l’azienda da anni lascia aperti varchi grandi come portoni alle rivendicazioni del suo personale.
Su questo bisogna spiegarsi bene: se l’uso dell’ente radiotelevisivo pubblico è quello di fare un contratto, e poi impiegare il lavoratore in mansioni diverse e superiori, è perfettamente legittimo fare causa. Se si assume un programmista regista per fargli fare il giornalista a tutti gli effetti, la questione non può finire che davanti al giudice del lavoro. E ancora: se nelle redazioni gli ordini di servizio emanati dai direttori giacciono per anni senza che siano avallati dall’azienda (è accaduto proprio nei maggiori telegiornali), ma con la gente che assume egualmente mansioni superiori, vuol dire che la Rai le cause se le cerca e che i danni dovrebbe chiederli ai propri dirigenti del personale, non certo ai dipendenti maltratatti.
Da mettere sotto accusa, infatti, è l’intera gestione del personale, giornalistico e no. E il meccanismo di stabilizzazione dei precari concordato con il sindacato unico di categoria dei giornalisti, la potentissima UsigRai, ha solo parzialmente affrontato il problema. Il prosciugamento del bacino dei giornalisti precari procede lentamente, ma a viale Mazzini il lupo perde il pelo e non il vizio, così si continuano ad inventare nuove ragioni di contenzioso. E questo non è certo responsabilità dei lavoratori, ma di chi i contratti li scrive male e non dà corso agli ordini di servizio firmati dai direttori di testate e protocollati dall’azienda con tutti i crismi.
Su un altro punto Sergio Rizzo mette per davvero il dito nella piaga: il costo eccessivo delle produzioni, quelle che dovrebbero portare ossigeno nelle malandate casse delle Rai. Sapere che negli ultimi due anni il Festival di Sanremo ha chiuso in perdita per 17 milioni e 424mila euro è la conferma di una sensazione largamente diffusa, e cioè che i veri tagli debbano riguardare le mega produzioni, costosissime ed inutili, che non reggono nemmeno più sul piano finanziario.
Quando in una rete come Raidue il programma di maggior ascolto è il telegiornale, vuol dire che la programmazione è da buttare e da ripensare completamente. Bisogna tagliare i costi, smettendo di comprare insulsi format stranieri e tornare a produrre in casa. La RAI ne ha ancora gli strumenti, tanto dal punto di vista ideativo, quanto da quello tecnico, con un consistente risparmio che può venire dal taglio netto agli appalti esterni.
Su due punti – invece – l’argomentazione di Sergio Rizzo dovrebbe essere ribaltata. Il primo è la vecchia e trita accusa che i dipendenti Rai siano troppi. Quelli a tempo indeterminato – secondo gli ultimi dati resi pubblici dalla Rai – sono 10196 (dei quali 1652 giornalisti), contro i 23mila della Bbc e i 26600 del sistema pubblico tedesco costituito da Ard e Zdf. Molto meno della metà, quindi, di simili esperienze straniere.
Per mandare in onda 14 canali televisivi, 7 canali radio, per complessivi 123mila ore annue di trasmissione oltre a Televideo e ai contenuti internet, non sono poi così tanto. E in più solamente una radiotelevisione di servizio pubblico può mettere in onda 21 telegiornali e GR regionali, comprese trasmissioni per le minoranze linguistiche in tedesco, francese e sloveno. Trasmissioni che non possono certo fare reddito, come invece fanno Mediaset, La 7 o Sky.
Sono numeri scomodi questi, che nessuno dei polemisti in servizio permanente effettivo contro la RAI tiene nella dovuta considerazione. Come pure non si tiene sufficientemente presente che praticamente tutti i servizi pubblici europei sono finanziati dal canone e che quello Rai con i suoi 112 euro è il più basso di tutti. In Austria, all’estremo opposto, si pagano ben 265 euro a famiglia.
Quello che differenzia la Rai dalle consorelle dell’Eurovisione è il tasso di evasione del canone, del 5 per cento in Germania e Gran Bretagna, dell’uno appena in Francia, del 26,71 nel Belpaese, con paurose punte del 44 per cento in Calabria e del 42 per cento in Sicilia. Nel dibattito pubblico una soluzione alla piaga dei “furbetti del canone“ si è affacciata da tempo, ed è inserire questo contributo nella bolletta elettrica, come all’estero accade in parecchie nazioni da anni senza che nessuno si stracci le vesti, né senta minacciato il libero mercato…
E’ qui che Sergio Rizzo non porta a termine il suo ragionamento: in tempo di crisi, e con la pubblicità conseguentemente in flessione, del canone il servizio radotelevisivo pubblico non può fare a meno, pena la sua lenta asfissia, strada sulla quale l’azienda sembra sempre più avviata per troppe colpe ed omissioni, tanto dei suoi dirigenti, quanto della politica da cui continua a dipendere. Servirà coraggio nei tagli e nelle scelte di fondo del prossimo futuro, ma la gestione Tarantola – Gubitosi, appena apertasi a Viale Mazzini, non potrà che riproporre il tema del canone all’attenzione pubblica. Ne va della sopravvivenza stessa della Rai, se riteniamo che un servizio pubblico, per quanto imperfetto, sia ancora un elemento qualificante della nostra democrazia.