Doveva essere fumata bianca, e fumata bianca è stata. La RAI ha un nuovo consiglio d’amministrazione, ma i suoi problemi rimangono tutti. Anzi, per amore della verità va detto che questi problemi escono amplificati dalla surreale vicenda del voto della commissione parlamentare di Vigilanza.
Nello sbloccare la situazione di stallo ha pesato più la minaccia di commissariamento (concretizzatasi sotto forma di ipotesi di decreto legge), piuttosto che la mossa di Schifani che ha suscitato le ire di Fini. Mossa formalmente ineccepibile, quella del presidente del Senato che ha sostituito il “ribelle” Paolo Amato con Pasquale Viespoli. Ineccepibile perché Viespoli da mesi chiedeva che il suo gruppo, “Coesione Nazionale” (cioè la versione di Palazzo Madama dei “responsabili”) fosse rappresentata in Vigilanza. Quel che è discutibile è la scelta dei tempi, cioè a urne aperte.
Se però si ragiona senza i paraocchi non si può dimenticare che partirono applausi bipartisan allo stesso Schifani, quando avallò la sostituzione di un altro ribelle, Riccardo Villari, con Sergio Zavoli. In quel momento l’operazione era utile all’equilibrio del sistema, oggi forse lo è un po’ meno, quindi è sempre una questione di tempi, oppure di misure e di pesi che cambiano troppo spesso e troppo rapidamente.
Sul terreno rimangono comunque i cocci della legge Gasparri e del suo meccanismo consociativo di nomina dei vertici del servizio pubblico radiotelevisivo. Nessuno ha voluto mollare la presa. C’è chi ci ha messo la faccia, come il PDL o l’UDC, che hanno confermato i consiglieri uscenti Verro, Rositani e De Laurentis (oltre all’estensore della legge Gasparri, Pilati), oppure chi si è trincerato dietro le scelte della cosiddetta società civile. Bersani ha indicato la via, sposando i nomi di Benedetta Tobagi e Gherardo Colombo, la Lega si è accodata, sostenendo la candidatura targata Confindustria di Luisa Todini per avere un pretesto per rientrare in gioco.
Niente di nuovo sotto il sole, quindi. Lottizzazione era e lottizzazione è stata, anche questa volta. Il centrodestra ha confermato con fatica la teorica maggioranza di quattro a tre nel massimo organo dirigenziale della RAI, ma il vero ago della bilancia saranno gli altri due consiglieri, quelli indicati dal governo: Anna Maria Tarantola, scelta per la presidenza e il vicecapo di gabinetto del Tesoro, Marco Pinto, di cui è difficile persino trovare una foto su internet.
Saranno loro a dover spalleggiare l’opera di risanamento di Luigi Gubitosi, già indicato per la direzione generale da un mese, con un notevole strappo sui tempi e sulle procedure. Dai tempi di Wind Gubitosi si porta dietro la fama di “uomo delle forbici”, quindi a Viale Mazzini c’è già chi si preoccupa. Prima sfida sarà una “spending review” in versione radiotelevisiva, anche per verificare la congruenza dei conti della gestione di Lorenza Lei, su cui in parecchi avanzano dubbi.
Sarà un intervento doloroso, almeno tanto quanto quello che Monti sta tentando di imporre sulla pubblica amministrazione, la giustizia e la sanità. Si dovranno andare a toccare santuari ancora intatti e scontrarsi con resistenze politiche e sindacali, dall’Usigrai dei giornalisti, al potentissimo Adrai dei dirigenti.
Nel frattempo però bisognerebbe fare tesoro delle brutte esperienze e mettere mano al meccanismo di governante del servizio pubblico. Assodato che la “Gasparri” non funziona, bisognerebbe metterci mano, senza la pressione di una scadenza imminente dei vertici di viale Mazzini. Se si perderà anche questa occasione la RAI continuerà il suo declino boccheggiante in una china discendente che ogni giorno in più assomiglia a quella dell’Alitalia. Con l’aggravante che la percentuale di colpa dei partiti qui è infinitamente superiore.