Il commissariamento, probabilmente, incombeva per davvero. Alla fine, quindi, la commissione parlamentare di Vigilanza Rai, dopo le aspre polemiche dei giorni scorsi, ha partorito il nuovo Cda di Viale Mazzini. Sono stati eletti, in quota Pdl-Lega Antonio Verro, Guglielmo Rositani, Antonio Pilati e Luisa Todini; in quota Terzo Polo, Rodolfo De Laurentiis; infine, la “società civile” ha indicato al Pd Benedetta Tobagi e Gherardo Colombo. A questi, si aggiungono Anna Maria Tarantola, (il presidente), e Marco Pinto, entrambi indicati dall’azionista di maggioranza, il ministero dell’Economia (ovvero, da Mario Monti, che mantiene la carica ad interim); resta solo la ratifica, da parte dei due terzi della commissione, della nomina della Tarantola. Per il resto, la tv pubblica torna a disporre di un organismo di governo nel pieno della sua legittimità, dato che il Cda precedente era ormai scaduto dal 28 marzo. Gianni Minoli, giornalista e conduttore, in Rai da una vita, ci spiega cosa ne pensa delle nuove nomine.
Come valuta la scelta dei nuovi membri del Consiglio d’amministrazione Rai? Si tratta di persone competenti?
Molto probabilmente, lo saranno sul fronte della capacità gestionale. Sicuramente, il presidente e il direttore generale sono due ottimi amministratori. Tuttavia, salvo i tre consiglieri che sono stati riconfermati (De Laurentiis, Rositani e Verro) e che, quindi, hanno già frequentato i corridoi di Viale Mazzini, nessuno ha esperienza in campo televisivo.
Colpa della lottizazione?
La lottizazione, ovviamente, è un problema. Ed è strutturale, dal momento che è la stessa legge che certifica la scelta del Cda da parte dei Parlamento e, quindi, dei partiti. E’ indubbio che l’azienda dovrebbe essere unicamente nelle mani dei professionisti. In ogni caso, il vero problema della tv di Stato è un altro.
Quale?
Il modello di governance Rai rende, di fatto, ingovernabile l’azienda. A prescindere dalla qualità delle persone.
Perché?
Di fatto, ogni consigliere, per legge, è assimilabile sostanzialmente ad una amministratore delegato. Non mi risulta che esista un’azienda al mondo che si basi su un tale modello composto da 9 amministratori e mezzo.
“Mezzo”?
Si, perché il direttore generale non è un amministratore vero e proprio, ma dispone esclusivamente del potere di proposta. La volontà gestionale si realizza, così, attraverso il concerto tra la volontà del direttore generale e quella del Cda. Per colpa di questo sistema, da anni, ormai, assistiamo ad una guida e a risultati modestissimi. Del resto, si immagini un giornale con 9 direttori. Secondo lei, come andrebbe a finire?
Che il giornale non uscirebbe…
Ecco, appunto. I programmi, invece, in onda ci vanno. Ma solo per miracolo. Perché in Rai c’è ancora gente capace, che conosce l’azienda ed è appassionata al proprio mestiere.
Quindi?
C’è da sperare che tale modello venga corretto. E che, come è stato preannunciato a più riprese, il Cda deleghi una serie dei suoi poteri al presidente Tarantola, in modo che la maggior parte delle decisioni operative venga assunta di concerto tra lei e il direttore generale.
Posto, quindi, che tali deleghe le siano conferite, quali sono le sfide principali che si dovranno affrontare?
La Rai, anzitutto, si dovrà adeguare all’era moderna, connotata dalle multimedialità e da una molteplicità di piattaforme integrate. Si dovrà dar vita ad una progettualità editoriale che declini l’idea del servizio pubblico all’interno delle nuove possibilità tecnologiche. Un compito decisamente arduo. Anche perché, negli ultimi15 anni, si sono avvicendati tre governi di centrodestra, 2 di centrosinistra, decine, tra direttori generali e presidenti; ma i palinsesti sino rimasti sempre gli stessi. A parte il tormentone “Santoro sì-Santoro no”, i programmi sono sempre quelli. Vuole dire che la Rai ha un gigantesco problema editoriale.
Non crede anche che si dovrebbe dar vita a qualche forma di spending review?
Sicuramente, il problema esiste. Come del resto dappertutto. Ma è anch’esso legato alle intenzioni dell’azienda rispetto al proprio progetto editoriale. Occorre, cioè, razionalizzare la spesa per concentrarla sul prodotto e non sulle strutture di supporto. Il core-business della Rai è rappresentato dalla televisione e dai programmi che vanno in onda. Invece, troppe risorse, umane ed economiche, sono dedicate al marketing, alla gestione o al controllo. Manca, però chi crea il prodotto. Tant’è vero che la maggiore parte dei programmi vengono realizzati all’esterno.
(Paolo Nessi)