Da più settimane si susseguono nei giornali gli interventi di politici e intellettuali sulla “questione cattolica” sollevata da un articolo di Antiseri e ripresa ampiamente da Galli della Loggia sulle pagine del Corriere della Sera. Debbo dire subito, con tutto il rispetto per la qualità degli interventi, che mi sembra trattarsi di un dibattito sfilacciato e mediocre, tutto interno ai problemi politici del nostro Paese e agli equilibri che si potranno creare dopo l’attuale stagione del governo dei tecnici di Mario Monti.
La costatazione di Galli della Loggia dell’attuale irrilevanza dei cattolici nel nostro Paese a causa dell’assenza di grandi figure intellettuali che sappiano produrre visioni generali è di per sé falsa e fuorviante, giacché sia la Chiesa che il mondo cattolico sono fin troppo presenti nella vita pubblica con iniziative di vario tipo che, comunque, hanno smosso le acque di un Paese stagnante. Illustri esponenti delle gerarchie cattoliche hanno prodotto luoghi d’incontro con il mondo laico, come il “Cortile dei gentili”, coordinato dal cardinal Ravasi, a cui hanno partecipato e partecipano i più noti intellettuali europei. A livello delle cronache quotidiane si registrano assai spesso iniziative volte a promuovere incontri di intellettuali e professionisti cattolici che si pongono il problema della crisi italiana. Anche la stessa discussione sull’opportunità o meno di costruire un soggetto politico unitario che rappresenti le istanze del mondo cattolico è di per sé arretrata e inconcludente rispetto alle emergenze e alle sfide a cui è esposta la società del nostro tempo, non solo in Italia ma anche nel mondo.
Di fronte a questo singolare tentativo di assumere la Chiesa e il mondo cattolico come oggetto delle proprie dissertazioni politologiche, come se ci fosse un tribunale laico che consente di pronunciare giudizi e sentenze, provo la penosa ironia di chi vede scendere in campo contro le milizie talebane la cavalleria Savoia con le sciabole sguainate e i cavalli lanciati al galoppo. Ma perché gli intellettuali laici non riescono a sviluppare una seria autocritica sul fallimento di tutte le ricette che le culture neoliberali e laiciste hanno prospettato nel corso di questi decenni per costruire un mondo migliore? Se la Chiesa cattolica si esprime a bassa voce, bisogna dire con altrettanta crudezza che gli intellettuali laici si esprimono con un omertoso silenzio di fronte agli scandali della vita quotidiana, dominata da speculazioni finanziarie e rapine colossali di intere aree del mondo che vengono assoggettate a sfruttamenti selvaggi. Che idea ha il mondo laico dell’educazione, della tutela dei minori, della lotta alla povertà estrema, della distruzione dell’ambiente, dell’impoverimento drammatico delle classi medie, della crisi dell’università e dei modelli formativi? Credo nessuna, a giudicare da quello che mi tocca leggere. Eppure è da questa impietosa analisi della realtà degradata del nostro occidente capitalistico che bisogna partire per formulare in modo corretto le domande che si vogliono porre alla Chiesa e al mondo cattolico.
Proprio per questo credo che la prospettiva vada completamente rovesciata. Non sono i laici a dover costituire il tribunale della storia che giudica l’attuale presenza del mondo cattolico, ma sono le persone che vivono soffrendo una miserabile quotidianità a chiedere alla Chiesa cattolica perché resta titubante e incerta rispetto allo scandalo del presente. Se un bambino muore durante una gita scolastica e un altro si frantuma in mille pezzi sbattendo contro un cavalcavia con la sua moto potente, la domanda che si pone la gente comune è quella del senso del male nel mondo e del silenzio di Dio. Come davanti allo sterminio dell’Olocausto, la domanda che ci insegue, togliendoci il respiro, è quella che molti credenti si sono posti: dov’eri tu, o Dio misericordioso, quando questo scempio dell’uomo si veniva compiendo con lo sterminio di massa o con la morte improvvisa di una giovane vita che lascia i genitori nel deserto affettivo di una perdita incolmabile?
Non dobbiamo giudicare la Chiesa e il mondo cattolico, di cui comunque anche i non credenti fanno parte, ma dobbiamo interrogare la Chiesa sul perché il Dio che essa professa resta così indifferente alle tragedie della vita umana. Certo rispetto a questa radicalità delle domande, il “Cortile dei gentili”, gli incontri di Todi, le manovre politiche, certi editoriali, appaiono miserie inconcludenti, un vero e proprio accecamento dello spirito. Ma proprio per questo bisogna andare oltre questa mediocrità contingente, alimentata da opportunismi e strumentalizzazioni, da ambizioni personali e piccoli desideri di rivalsa.
La voce più forte che ho ascoltato in questi ultimi anni in cui anch’io ho sperimentato il dubbio e la disperazione è quella che viene da alcune grandi testimonianze artistiche che mostrano assai più di tante altre espressioni il senso tragico di un rapporto con Dio che non può essere perduto nella chiacchiera politica. Penso allo straordinario film Gli uomini di Dio, in cui un gruppo di monaci vive l’esperienza della condivisione del dolore del prossimo e testimonia sino alla morte la fedeltà al messaggio di Cristo dell’amore oltre ogni limite. La sobrietà della vita dei monaci, la semplicità del loro comunicare sulle questioni di fede, la loro preghiera semplice e austera, l’intensità dei loro rapporti affettivi, la sobria bellezza della loro comunione sono più eloquenti di qualsiasi omelia e di qualsiasi comunicato della Conferenza episcopale. La straordinaria consapevolezza del voler fare della volontà del Padre la misura di ogni condotta rende quei monaci incarnazioni viventi del Verbo dell’Amore, dell’amicizia, della fraternità con i diversi e gli stranieri. Come sempre, l’exemplum di una esperienza è un paradigma di vita che non si può tradurre in concetti astratti o in teorie sul bene e sul male. A chi non si è commosso vedendo i monaci allontanarsi nella neve sotto la spinta del mitra del terrorista che li conduce a morte, a chi non si è commosso vedendo queste fragili figure umane, piene di paura e di speranza, scomparire nel turbinio della neve, io penso che non ci sia nulla da dire. Se sei così indifferente al richiamo della trascendenza, resta pure tranquillo a curarti dei tuoi affari.
Perché non siamo capaci di essere monaci affettuosi, soccorritori fraterni, felici testimoni del sangue versato per tutti bevendo il vino e mangiando il pane della mensa comune? Il problema che io sento come una mia stessa colpa è perché anche la Chiesa cattolica, forse inconsapevolmente, partecipi dell’alienazione del mondo agli idoli del successo personale e della partecipazione al potere.
Nell’epoca della dissacrazione di ogni legge e di ogni tabù, della dissipazione dell’interiorità dello spirito nella futilità dello spettacolo, io chiedo alla Chiesa di essere un luogo di testimonianza profetica che scompagini il quieto vivere del “politicamente corretto”. Questo mondo ha bisogno di una grande Chiesa e di un grande spirito religioso che, rinunciando ad ogni egemonia e ad ogni gerarchia istituzionalizzata, si metta per la strada ad incontrare davvero il mondo del dolore e della disperazione. Quello che manca al nostro tempo non è una specifica qualità intellettuale degli esponenti del cattolicesimo, ma una loro conversione umana per ritrovare la sintonia con quello che dalla storia lontana si è autodefinito il popolo di Dio. Il popolo di Dio vive in questo momento un drammatico esilio: non c’è più una terra promessa verso la quale mettersi in viaggio ma, al contrario, ciascuno si trova nella condizione di un “esodo” permanente che lo costringe alla solitudine più dolorosa.
Proprio per queste ragioni sono convinto che il tema della nostra epoca non sia quello del partito cattolico o del compromesso sui valori non negoziabili, ma quello di promuovere una nuova costituzione culturale che rimetta al centro della vita collettiva le ragioni autentiche dello stare insieme. Il mondo cattolico è ancora oggi l’unica forma di memoria dell’antropologia cristiana che ha costituito la base profonda della vita collettiva di ogni Paese. La stessa idea di libertà, che per molti resta la bandiera dell’Occidente, non è pensabile senza il principio secondo cui tutti gli uomini sono uguali perché figli dello stesso Padre.
La persistenza di una visione antropologica che continui a testimoniare il messaggio di Cristo non può prestarsi certamente alla elaborazione di ricette politiche per risolvere il problema della crisi del sistema italiano. Essa istituisce invece una grande linea di confine tra la cultura che oramai si è appiattita sullo scientismo biologico e sull’efficientismo economico proponendo al meglio l’accettazione eroica di un destino senza alternative (negando ogni possibile oltrepassamento dell’orizzonte storico) e la visione di quanti nell’esperienza dolorosa del male del mondo maturano la speranza di un altro orizzonte di senso. Solo una dimensione trascendente può permettere una dialettica tra necessità e libertà che non si risolve in una implicita apologia del mondo delle cose esistenti.