L’assetto istituzionale italiano fa acqua da tutte le parti: i Comuni (8.092) variano da 40 a 4.000.000 di abitanti; le Province (107) da 90.000 a 4.500.000 abitanti; le Regioni (20) da 300.000 a 10.000.000 abitanti. L’anomalia principale è che le funzioni sono assegnate in modo sostanzialmente uniforme a ogni tipo di ente, nonostante, ad esempio, un Comune da 40 abitanti sia qualcosa di radicalmente diverso da uno che ne conta qualche milione. I tentativi di razionalizzare questo assetto non hanno sinora prodotto grandi risultati. Recentemente ai piccoli Comuni si è imposto l’obbligo della gestione associata delle funzioni: è un passo in avanti, ma resta ancora molto da fare. Riguardo alle Regioni non ha mai ricevuto attuazione l’art.116 della Costituzione che prevede il superamento della logica dell’uniformità attraverso un procedimento di differenziazione.



L’unico ente sul quale si è fatto molto sono invece le Province, di fatto sostanzialmente cancellate dal decreto “salva Italia”. In questo caso, però, si è fatto troppo e male: è recente la notizia della fissazione al 6 novembre della decisione della Corte costituzionale, che dovrà dire se è possibile, con decreto legge e senza una revisione della Costituzione, svuotare tutte le funzioni di amministrazione attiva delle Province e cancellare l’elezione popolare. Nell’attesa della pronuncia si può solo evidenziare che Valerio Onida, già presidente della Corte costituzionale, si è espresso in termini molto critici sulla legittimità della riforma. La questione rimane in ogni caso sostanziale: alcune Regioni hanno forti percentuali di Comuni sotto i 1.000 abitanti; in questi casi la soppressione delle Province rischia di rendere ingestibile il sistema territoriale. Chi si occuperà delle strade? E’ impensabile che possano farlo i Comuni “polvere”; è utopico ipotizzare che se le assumano le unioni di Comuni, che ancora non  esistono; volere che facciano tutto le Regioni è contraddittorio rispetto a quella condivisibile impostazione che le vorrebbe come enti più di legislazione che di amministrazione.



Non mancherà allora chi proporrà, per gestire le strade, di istituire l’ennesima agenzia regionale, posta fuori dal controllo democratico degli elettori e quindi fonte di sprechi e di corruzioni varie. In Parlamento si sta intanto lavorando ad alcuni emendamenti alla Carta delle Autonomie per restituire alle Province alcune funzioni, ad esempio le strade, lasciando però ferma l’eliminazione dell’elezione popolare. Questa soluzione apre però un altro problema: può un ente di secondo livello, non eletto democraticamente, stabilire imposte per finanziarsi? Il principio no taxation without representation ne sembrerebbe compromesso. In sintesi, la matassa si sta ingarbugliando sempre più. Resta il fatto che le tanto vituperate Province qualcosa di buono continuano a farlo.



Ad esempio in Veneto, dove sono stati numerosi i suicidi di imprenditori colpiti dalla crisi, la provincia di Treviso ha avviato un progetto che, con uno stanziamento poco superiore a 100.ooo euro, è riuscito ad assistere una quarantina di queste persone, portandone un buon numero a riaprire l’attività, altri a intraprendere percorsi di riqualificazione professionali e altri ancora a trovare impiego a tempo indeterminato. 

Per questo sembra da salutare positivamente la recente notizia per cui il Governo sta lavorando a una nuova ipotesi: quella di sopprimere solo le Province più piccole e lasciare invece in vita quelle più grandi (si tenga presente che la Provincia di Milano ha una popolazione maggiore di quella della Regione Calabria, quella di Cuneo maggiore di quella della Liguria e quella di Lecco maggiore del Molise). Peraltro, proprio le Province più piccole sono anche quelle risultate meno efficienti nella recentissima elaborazione dei fabbisogni standard che sono stati approvati dalla Copaff il 28 giugno sulle prime funzioni fondamentali degli enti locali (nel caso delle Province si è trattato della funzione dei servizi al lavoro).

I fabbisogni standard, che rappresentano il cuore della riforma del federalismo fiscale, mettono in evidenza come le Province sotto i 250 mila abitanti siano altamente inefficienti (con un differenziale negativo tra spesa storia e fabbisogno standard variabile, in media, tra il 13 e il 30 per cento) se paragonate a quelle con più di 500 mila abitanti (che hanno, invece, in media un differenziale positivo del 10 per cento).