La fede come antitesi alle forze della disgregazione. La Chiesa? «Una realtà viva e vitale». Andrea Riccardi, storico, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, attuale ministro per la Cooperazione internazionale nel governo Monti, non è molto d’accordo con le tesi formulate da Ernesto Galli della Loggia sull’«irrilevanza dei cattolici». E boccia l’idea di un nuovo partito cattolico.



Ministro, nel suo recente editoriale dedicato ai cattolici, Galli della Loggia ha detto che il cattolicesimo italiano avrebbe «cessato di essere matrice di una possibile cultura politica». Secondo lei è davvero così?

Da studioso del fenomeno religioso, ma anche da semplice osservatore della realtà italiana, ritengo che la Chiesa rappresenti una realtà viva e vitale. Certo il momento non è semplice, per nessuno. È un dato di fatto che il nostro Paese stia vivendo una crisi delle reti. La nostra società si sta scomponendo: gli italiani e le italiane sono sempre più soli: loro forme comunitarie più semplici, dalla famiglia alle più elementari forme associative, non tengono più. Gli stessi partiti politici sembrano scomparsi dall’orizzonte quotidiano degli italiani. E non si tratta solo di discredito, ma – ciò che è peggio – di irrilevanza. Ebbene, in questo scenario complicato, investito dai venti della globalizzazione e della solitudine, la Chiesa continua a essere un solido punto di riferimento. Non per tutti, ma certamente per molti.



La Chiesa in che senso?

La Chiesa come luogo di fede, ma anche come ispiratrice di vita più umana, di relazioni sociali e solidali. La Chiesa possiede una cultura del vivere insieme e, dunque, una cultura sociale e, in senso lato, politica. Credo che questo sia un patrimonio prezioso, da spendere nel presente del Paese.

Se da un lato Galli della Loggia accusa la mancanza di una semplice «voce cristiana» dei cattolici, c’è chi, come Dario Antiseri e molti altri, vorrebbe ricostituire un partito cattolico.

Apprezzo Antiseri, ma credo che la sua idea di ricostituire un partito dei cattolici non sia praticabile. L’idea più interessante è innestare la cultura politica dei cattolici, che scaturisce dalla loro appartenenza ecclesiale, nel quotidiano del dibattito pubblico. Lo stesso Mario Monti ne è un esempio: è un cattolico al servizio dell’interesse nazionale. Non avremo più una nuova Dc, piuttosto una maggiore concentrazione dei cattolici in alcune parti dello schieramento politico, e con essa una presenza più intensa di valori, di idee, di sentimenti di matrice cattolica.



Insomma, l’addio all’impegno unitario dei cattolici in politica sancito dalla Cei a Palermo nel 1995 resta un punto di non ritorno.

Sì, anche se credo che il vero passaggio sia quello degli anni 90 nel loro insieme. Una stagione in cui abbiamo visto l’eutanasia della Dc, vittima di se stessa e dello spirito del tempo, che forse è stato preponderante rispetto agli errori commessi. Non dimentichiamo, tuttavia, che dieci anni prima del convegno della Cei a Palermo, e dunque prima del tramonto del partito unitario, Giovanni Paolo II a Loreto sostenne che il cattolicesimo in quanto tale era forza sociale trainante di tutto il nostro Paese. 

Ma lo è ancora, secondo lei?

È fuor di dubbio una forza sociale; e può essere certamente più trainante di quanto sia stata fino ad oggi. Per «trainante» voglio dire fatta di persone che hanno il coraggio di spendersi nel quotidiano e nel concreto, sporcandosi le mani. 

Si parla continuamente di fine della Seconda Repubblica. Lei cosa pensa in proposito?

Stiamo assistendo alla sua fine. Io chiamerei Seconda Repubblica l’età di Berlusconi: è stata la sua età anche quando Berlusconi non è stato al governo; cioè l’età dei partiti personali e di un forte antagonismo. Personalizzazione della politica e antagonismo corrispondono solo in parte a un sentire cattolico, che da parte sua ha sempre insistito, pure nella differenza delle posizioni, sul bene comune nazionale. Questa è una eredità della Dc, che è sempre stata, al tempo stesso, luogo di scontri e di grandi mediazioni. Ora ci troviamo davanti ad una fase nuova, a un grande cantiere da costruire nel quale i «mattoni» del cattolicesimo rappresentano una parte fondamentale.

Che cosa le consente di dire che quella parentesi personalistica si stia concludendo?

Non è solo la «parentesi personalistica». È la stessa Seconda Repubblica che ha segnato il passo. Questo passaggio, anche per un atto di responsabilità dei partiti e dell’opinione pubblica, per nostra fortuna non sta avvenendo in un modo così cruento e consumatore di energie come fu quello dalla Prima alla Seconda Repubblica. Il governo Monti è l’attore principale di questa svolta? Gli storici lo diranno. Riflettiamo, intanto, sul fatto che questo governo è il frutto della responsabilità delle maggiori forze politiche presenti in Parlamento. 

Si parla di una nuova fase costituente e Marcello Pera ne ha prefigurato la formazione e il programma. Nel 1946 i cattolici ebbero molto da dire. Che cosa pensa, nel merito, di questa proposta?

Non mi voglio pronunciare sull’ipotesi di una nuova Assemblea costituente. Se però lei mi chiede come vedo il futuro, le posso dire che dopo il 2013 dobbiamo continuare l’opera di risanamento del Paese e dobbiamo farlo con molto coraggio e con molta forza. Vede, io penso spesso a ciò che disse Giuseppe Romita nel 1946, «o la Repubblica o il caos». Noi ci troviamo davanti da una parte a una Repubblica da ricostruire, e dall’altra al caos della disintegrazione. Naturalmente, in una ipotesi di ristrutturazione della casa della Repubblica penso che i cattolici abbiano idee molto valide.

Il dopo-Monti?

Io credo che la storia sia piena di sorprese e che lo spirito pubblico del Paese, nei mesi che ci attendono, possa essere capace di novità sorprendenti.

(Federico Ferraù)