L’idea di una macroregione del Nord è – senza dubbio – assai seducente. E tuttavia, contrariamente a quel che potrebbe apparire dal dibattito di questi giorni, è un’idea antica, che risale alle origini della Repubblica. In quanto tale, rappresenta un elemento costante della storia che, come un torrente carsico, riemerge circa ogni quarto di secolo. Proprio per ciò è una delle grandi aporie – vale a dire delle contraddizioni originarie – dello Stato repubblicano, è lo specchio fedele in cui si riverbera la Questione settentrionale.
All’indomani della Liberazione, il 27 aprile 1945, un gruppo di giovani dell’Università Cattolica di Milano guidati dal professor Tommaso Zerbi organizzarono il movimento del Cisalpino. Movimento che si rifaceva – nel nome – al manifesto elaborato da Carlo Cattaneo all’inizio delle Cinque Giornate di Milano, nel 1848, auspicando la nascita di una Repubblica lombarda (cisalpina, appunto), Stato autonomo e libero, democratico e indipendente.
Il Cisalpino del secondo immediato dopoguerra nasceva per contrastare l’ottuso nazionalismo fascista e per tutelare gli interessi dell’Italia settentrionale, già allora considerata una «vacca da mungere», come scrivevano. Secondo i cisalpini, una repubblica federale sarebbe stata la risposta più efficace a questa realtà, nell’intimo convincimento che la vera democrazia si può realizzare solo ricorrendo all’autonomia e all’autogoverno delle comunità volontarie territoriali. La repubblica federale che proponevano era concepita su base cantonale, secondo il modello elvetico, con la costituzione di un Cantone cisalpino – che era poi la macroregione del Nord di cui si dibatte oggi – comprendente tutta la valle del Po.
Il 6 novembre 1975, alla fine del proprio mandato, il primo presidente della Regione Emilia-Romagna, l’esponente del Partito comunista Guido Fanti (scomparso di recente), rilasciò un’intervista a La Stampa di Torino. Proponeva la stipula di un accordo permanente tra Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia, con il deliberato obiettivo di fronteggiare la crisi economica in atto, attraverso l’adozione di politiche coordinate e la programmazione strategica dello sviluppo di un’area geografica ed economica circoscritta alle regioni che si affacciano sul Po. Per uscire dalla crisi, secondo Fanti, era necessario andare oltre le strutture del vecchio Stato burocratico e accentratore, per fondare un nuovo Stato fortemente decentrato su base macroregionale – ai confini del federalismo realizzato – e così valorizzare le risorse economiche e produttive territoriali.
Anche il comunista Fanti pensava dunque alla macroregione del Nord. Alla sua proposta politica non mancò di replicare, sulle colonne del Corriere della Sera, il professore della Cattolica di Milano Gianfranco Miglio. Che trovava persuasiva e fondata l’idea di una macroregione del Nord, autonoma dal punto di vista politico e amministrativo. Ricordava i tempi del Cisalpino – movimento al quale, giovanissimo, aveva aderito anche lui – e definiva «inevitabile» la nascita di una macroregione padana, per una serie di ragioni di natura storica, politica e istituzionale, a cominciare dalla «pietosa» esperienza dello Stato unitario, che dal punto di vista burocratico e amministrativo ha sempre funzionato poco e male.
Con la caduta del Muro di Berlino crollano le ideologie. E agli inizi degli anni Novanta, in Italia, muore pure la Prima repubblica. Il tornante 1989-1994 è decisivo per il riemergere – in modo netto e inequivocabile – della Questione settentrionale e, di conseguenza, dell’idea di una macroregione del Nord. Richiama l’attenzione su questa realtà, proprio in quegli anni, la Fondazione Agnelli, realizzando un’importante ricerca:La Padania, una regione italiana in Europa (1992). Ricerca dalla quale viene fuori con chiarezza l’esistenza di una macroregione del Nord dalla fisionomia geo-economica e dalla vocazione europeista e federalista.
Nello stesso anno appare anche la ricerca di un politologo di Harvard, Robert Putnam: Le tradizioni civiche nelle regioni Italiane (1992). Le virtù civiche delle comunità territoriali della valle del Po risalgono all’esperienza storica municipale del XII secolo, caratterizzata da un sistema articolato di comunità volontarie territoriali. Si trattava di comunità fondate sull’autonomia, l’autogoverno e le libertà commerciali. Ciò rappresentò la maggiore alternativa al feudalesimo allora dominante nel resto dell’Europa, compreso il Sud Italia normanno. Questa esperienza storica, politica e istituzionale, ma anche economica, sociale e culturale, ha inciso nella mentalità collettiva – questa la sua tesi – sino a segnarla in profondità e a caratterizzarla in modo specificamente identitario.
È in questo contesto, segnato dagli studi della Fondazione Agnelli e di Putnam, che Gianfranco Miglio – allora coinvolto nell’avventura della Lega – rilancia il suo progetto della macroregione del Nord e delle tre Italie; non già nell’Asino di Buridano, pubblicazione che è solo della fine degli anni Novanta, come erroneamente ricorda la stampa in queste calde giornate d’agosto, commentando e analizzando la prospettiva della macroregione del Nord proposta dal presidente Formigoni. Una prospettiva peraltro largamente condivisa, che sta raccogliendo molti consensi trasversali.
Oggi non si possono chiudere gli occhi di fronte al fatto che il 70 per cento del Prodotto interno lordo – cioè del fatturato del Paese – viene dal grande Nord (Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia). E che il Nord annualmente stacca un assegno a beneficio di Roma e di tutte le altre regioni del Paese dell’ammontare di circa 60 miliardi di euro. Questa è la realtà, che certifica l’esistenza della Questione settentrionale, espressione di un’area geografica ed economica dalla forte vocazione produttiva, all’avanguardia in Europa. L’Istat ha da poco anticipato i dati relativi al 2011: mentre il Nord – che non ha problemi di debito pubblico e ha un’evasione fiscale assai modesta – cresce dell’1% malgrado la crisi, il Centro e il Sud sono fermi al palo.
Baviera e Grecia sono dunque due dimensioni concrete che nascono dalla frattura prodotta dallo sviluppo duale della Penisola. Il problema – dal punto di vista politologico – risiede nel fatto che chi ha inteso governare questo Paese non ha mai fatto i conti sino in fondo con il Nord, se non attraverso la vessazione fiscale. E tuttavia, di fronte alla crisi economica in atto, oggi il Nord non può più permettersi il lusso di trasferire ingenti risorse al Mezzogiorno e neppure di sostenere il debito pubblico.
A rendere credibile e attuabile il progetto di una macroregione del Nord, autonoma dal punto di vista politico e amministrativo, vi sono due elementi. Da un lato l’omogeneità, cioè l’unità organica – dal punto di vista geopolitico e socioeconomico – delle comunità volontarie territoriali della valle del Po. E dall’altro l’esigenza di una revisione dell’istituto regionale, figlio di una cultura istituzionale e amministrativa di matrice ottocentesca che ha fatto il suo tempo: troppo piccolo per avere politiche ambiziose, troppo grande per avere un rapporto diretto con i cittadini. Oggi, di fronte al cupio dissolvi dello Stato nazionale, burocratico e accentratore, s’impongono le grandi unità regionali. Che non hanno nulla a che vedere con le regioni previste in una Costituzione concepita per quello Stato che sta morendo e che, nella sua deriva, trascina con sé anche la Carta e le vecchie Regioni.
Qui ci troviamo di fronte – è questa la grande novità – a unità macroregionali che rappresentano il vero antidoto alla crisi economica e alle perverse dinamiche della globalizzazione. Se prima la dicotomia era quella tra Stato e mercato, adesso essa ha mutato di segno ed è quella tra comunità territoriali e mercato globale. Comunità territoriali che devono essere messe nelle condizioni – oltre l’oggettiva crisi, determinata dai processi di globalizzazione, in cui si dibatte lo Stato – di sviluppare un’azione autonoma nel contesto internazionale in forza del paradigma glocal.
La macroregione del Nord è una comunità di destino; non è un’invenzione politica, è piuttosto una realtà, che riemerge con forza. È dunque ineluttabile che vada a finire così, cioè che nasca la macroregione del Nord, atto politico che risolve le contraddizioni della storia. Bene ha fatto però il neo segretario della Lega, Roberto Maroni, a inchiodare tutti alle proprie responsabilità, di fronte al dibattito di questi giorni. Riconoscere l’esistenza della Questione settentrionale e auspicare la nascita di una macroregione del Nord, intesa come realtà politica e amministrativa, oggi non basta più. Bisogna farla. È il momento di agire, di far seguire alle parole i fatti.