Non è più una Repubblica per Scalfari. Il grande vecchio, il Fondatore del giornale-partito che da sempre indica la rotta del giustizialismo nazionale da un po’ di tempo sembra diventato un ospite ingombrante, tollerato, sulle pagine che a lungo a diretto. Lui da una parte, a difendere il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dagli attacchi velenosi della magistratura siciliana, dai tentativi di coinvolgerlo, seppure di striscio, nella melma della “trattativa” tra stato e mafia. E il quotidiano diretto da Ezio Mauro a remare dall’altra, con i giudici, sostenuto dalle firme più prestigiose come ieri il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, autore di un attacco frontale al Capo dello Stato, accusato nemmeno tanto sottotraccia di indebolire la magistratura.
Lo strano caso de La Repubblica è un po’ il simbolo di un lento, ma inesorabile, terremoto che sta cambiando il panorama del fronte giustizialista. Come per i tutti i terremoti, le cause restano misteriose, ma agli strumenti dei sismologi i mutamenti non sfuggono. Cosa stia accadendo, è difficile dirlo. Ma i fatti sono chiari. Quando il fango della “trattativa” ha lambito il Quirinale, il tradizionale fronte manettaro si è spaccato. Il Fatto di Travaglio, la sinistra estrema e la sinistra chic di Libertà e Giustizia (Zabgrebelsky e Sandra Bonsanti, madrina del movimento, hanno formato pure l’appello del Fatto “in difesa” dei giudici di Palermo) sono andati all’attacco. Tonino Di Pietro è giunto a dire che “Craxi era meglio di Napolitano”, e per lui, c’è da credere, è il massimo dell’insulto. Invece la parte del Pd storicamente più contrassegnata da senso dello stato e delle istituzioni, e personalità ormai meno travolte dalla foga della battaglia politica, come Eugenio Scalfari appunto, hanno detto basta. Questione di rispetto istituzionale, di difesa dell’unico ruolo, quello del Capo di Stato, finora rimasto immune dall’ondata antipolitica. Forse anche, per Scalfari, un fatto di amicizia personale e, per così dire, sintonia generazionale.
Tutto vero, ma basta a spiegare una guerra in un fronte che, fino a qualche mese fa, Berlusconi regnante, era unito come un sol uomo nelle quotidiane battaglie forcaiole? Forse no, forse c’è qualche scossa più in profondità. Non è un mistero, ad esempio, che giornali come il Fatto, partiti come l’IdV, una parte del Pd che non ha mai digerito i tecnici e il loro “rigore” e la stessa “banda Zagrebelsky” si siano trovati ricompattati in una ideale opposizione dopo la nascita del governo di Mario Monti. Chi per demagogia, chi per preconcetto (il Fatto non smette mai di far le pulci alle presunte marachelle dei ministri montani). Chi, come Libertà e Giustizia, per il sincero ed esplicito sospetto che la nascita del governo Monti non abbia compiuto quel repulisti antiberlusconiano in cui speravano. E dell’operazione Monti, va da sé, il massimo tessitore e garante è stato proprio Giorgio Napolitano. Anche qui, non è un caso che dalle colonne di Repubblica le critiche a Monti non siano mai mancate, mentre, in controtendenza, il Fondatore Scalfari se ne è fatto sempre più un convinto sostenitore.
Da qui a dire che la scelta di scatenare una campagna giustizialista sfruttando l’eterno bailammemafiologico e portandola fino alle plateali raccolte di firme a favore dei pm e contro il Quirinale – addirittura accusato di essere “il perno di tutt’intera un’operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati” – sia una strategia consapevole, ne corre. Ma il 2013 è maledettamente vicino, la fine del settennato di Napolitano pure. E forse, in certi ambienti, più passa il tempo e più cresce il timore che un Giorgio Napolitano allo zenit della sua autorevolezza e popolarità possa favorire una prospettiva “dopo Monti c’è ancora Monti”, con quel che ne consegue. E allora la vecchia arma italiana del giustizialismo può sempre fare comodo, nella guerra politica preventiva. E chi non ci sta, diventa un nemico.