“Dal Colle alla Juve magistrati irragionevoli”, dice l’ex ministro Maurizio Sacconi in un’intervista. E con parole ponderate, ma che pesano, anche l’ex presidente della Camera, Luciano Violante, descrive una situazione problematica nei rapporti tra giustizia e politica, sul tema delle intercettazioni, sugli interventi della magistratura, sul ruolo che esercitano, magari non per loro stessa volontà, alcuni pubblici ministeri. Di fronte a una simile situazione, di fronte anche alla oggettiva crisi della giustizia italiana, ai tempi biblici di questa giustizia, alla massa di processi che si accumulano in Cassazione, viene legittimo chiedersi se sia possibile arrivare a una riforma bipartisan su tutti questi argomenti e problemi. Abbiamo posto la domanda a Piero Ostellino, ex direttore de Il Corriere della Sera, oggi editorialista controcorrente del giornale di via Solferino, spirito liberale di lunga milizia che ha studiato giurisprudenza “alla scuola” di un filosofo del diritto come Norberto Bobbio: «Sarebbe possibile se ci fosse la volontà politica di farlo, perché effettivamente non si può andare avanti in questo modo. Ma, anche se la speranza è l’ultima a morire, io ci credo poco, non voglio nemmeno illudermi su una questione come questa. Guardando le vicende della giustizia italiana, sembra di vedere l’aspetto emblematico dell’Italia di oggi, un Paese che sta sciogliendosi come una palla di neve al sole, un Paese che sta morendo».



A che cosa è dovuto tutto questo?

Principalmente a un grande collasso culturale. Qui non si riescono più a comprendere le distinzioni che esistono tra società, politica e giustizia. Non si può confondere la politica con l’etica. Si sono dimenticate completamente le nozioni fondamentali della dottrina dello Stato, della filosofia del diritto, delle autonomie e delle distinzioni che esistono e che devono esserci in uno Stato liberale. A volte io penso che siano cresciute leve di magistrati con nozioni approssimative, confuse, che rivelano forse non solo cattivi studi giuridici, ma anche studi liceali fatti male. Chi va in cattedra, oppure va in magistratura, oppure nel giornalismo, porta per prima cosa le sue idee politiche. Un uomo come Norberto Bobbio, che era di orientamento azionista, quando entrava in università restava in primo luogo un giurista, un grande filosofo del diritto. E questo esempio valeva per molti docenti di diritto. Tutto questo non c’è più.



Lei si è riferito anche al giornalismo.

Ma insomma, quando i direttori di giornale manderanno dei cronisti dotati di un minimo di spirito critico a seguire le inchieste della magistratura? Quando Luciano Violante parla della necessità di una “separazione di carriere” tra magistrati e giornalisti ha perfettamente ragione, perché come non si può vedere che molte cronache giornalistiche sembrano dettate, rimasticate da verbali?

Quali decisioni della magistratura l’hanno maggiormente colpita in questo periodo?

Prendiamo il caso dell’Ilva di Taranto. Si dice che un’acciaieria inquina ed è certamente vero che un’acciaieria inquini l’ambiente. Persino i cinesi, che non hanno alle spalle tutta la nostra cultura e la nostra storia, costruiscono le acciaierie lontano dalle case, dai centri abitati. Noi invece abbiamo fatto un’acciaieria vicino alle case e poi, quando era già in funzione, si sono costruite altre case. Detto questo, e precisato che in una società liberale il diritto alla salute viene prima di tutto, vediamo che una mattina un “gip”, un giudice delle indagini preliminari, decide la chiusura della cosiddetta “area a caldo” di questo impianto. Ma questo magistrato sa che cosa vuole dire chiudere quell’area? Pensa che si possa fermare con un interruttore? In questo modo, quel magistrato ha ucciso un’azienda per una serie di complessi problemi tecnologici. Tutto questo sembra ragionevole? Non mi pare. Ed è possibile e ragionevole porre in contrasto il diritto al lavoro con il sacrosanto diritto alla salute? Non mi pare. È questo quello che nasce nella confusione e nell’ignoranza. È tutto questo che non porta a delle soluzioni ragionevoli.



 

Poi c’è il problema delle intercettazioni, il contenzioso che è nato tra la procura di Palermo e il Quirinale?

 

In questo caso il pubblico ministero Antonio Ingroia ha chiesto alla politica una sorta di costituzionalizzazione della “ragione di Stato” per non prendere in considerazione alcune intercettazioni telefoniche. In questo modo ha fatto una proposta che la politica non può accettare. Ha rovesciato quello che faceva il “Padrino”, quando diceva “le farò una proposta che non può rifiutare”. Ma come può la politica accettare una cosa del genere? La ragion di Stato è immanente alla politica, Ingroia non può avanzare simili pretese.

 

Quale percorso storico della società italiana ha portato a una simile situazione?

 

C’è un paradosso da ricordare. Durante il fascismo c’erano grandi giuristi che insegnavano e che provenivano dalla vecchia Italia liberale. Nel 1945, caduto il fascismo, sono entrati in magistratura molti giovani che erano cresciuti sotto il fascismo. Due anni dopo si è varata una Costituzione che io definisco “parasovietica”. Nello stesso tempo il Pci si è reso conto che in Italia non poteva fare la rivoluzione. È cominciato così un lungo viaggio gramsciano tra le istituzioni e nel mondo della cultura. Ma lo stesso Pci non ha saputo gestire quello che aveva creato. Abbiamo avuto prima i “pretori d’assalto”, poi diventati procuratori e magari giudici di Cassazione, con retaggi culturali tra fascismo e sovietismo. Il collasso a cui assistiamo avviene per questa ragione. È per questo che non mi faccio illusioni su una proposta bipartisan di riforma della giustizia italiana.

 

(Gianluigi Da Rold)